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Francesca Paci per âLa Stampa'
Le storie dei condannati a morte in Iran non finiscono bene neppure in un romanzo d'amore come «Underground Bazar» di Ron Leshem. Per questo vale la pena raccontare quella vera del giovane Balal Abdullah, perdonato dalla madre della sua vittima a pochi istanti dalla fine, quando aveva già la benda nera sugli occhi e il nodo scorsoio introno al collo.
Balal era stato destinato alla pena capitale nel 2007 per aver ucciso a coltellate il coetaneo diciassettenne Abdollah Hosseinzadeh durante una rissa in strada a Noshahr, nel nord del paese. L'ora X era fissata per martedì e la piazza centrale della città aspettava muta l'ennesima prova dell'impermeabilità di Teheran all'affermazione dei diritti umani. Secondo Amnesty International e gli osservatori Onu dall'elezione del presidente Hassan Rohani, lo scorso agosto, il lavoro del boia si è addirittura intensificato con almeno 537 esecuzioni negli ultimi 8 mesi, 200 delle quali dall'inizio del 2014 a oggi.
Il paese stagna in un perenne deprimente bivio, il passato e il futuro, la spietata ineluttabilità della legge di Dio e la resilienza degli uomini. La logica dell'occhio per occhio prevedeva che spettasse a mamma Samereh Alinejad scalciare via la sedia da cui Balal in piedi lanciava le sue ultime grida, abbandonandolo al vuoto. Invece lei, che dopo Abdollah aveva perso un figlio di 11 anni in un incidente di moto, ha detto no, ha schiaffeggiato l'assassino implorante perdono, si è calmata, ha guardato i concittadini ai quali poco prima aveva domandato «Sapete cosa vuol dire vivere in una casa vuota?», ha ascoltato i loro applausi e poi ha chiesto al marito Abdolghani di liberare il condannato dalla corda fatale.
Ora sconterà la pena in carcere. «Sono una credente, tre giorni fa ho sognato il mio ragazzo che mi diceva di essere in un bel posto e mi chiedeva di non cercare il regolamento dei conti così ho punito l'assassino schiaffeggiandolo» ha spiegato la donna ai giornalisti locali. Un gesto irrazionale di segno opposto alla vendetta. Il consorte, un ex allenatore di calcio, ha aggiunto al «Guardian» che si è trattato di un incidente, che Balal non voleva uccidere suo figlio e che era «inesperto, non sapeva maneggiare il coltello da cucina».
La Repubblica islamica dell'Iran è seconda solo alla Cina per il numero di condanne a morte eseguite pubblicamente ogni anno. E mentre il paese reale spera che il rallentamento del programma nucleare porti a un accordo internazionale il 20 luglio prossimo, quello ferale composto dagli ultraconservatori e dai Pasdaran tiene sotto pressione il presidente Rohani per il suo tentativo di concedere alcune minime libertà culturali, in particolare nel campo dei social network.
Balal, per il quale nei mesi scorsi si erano spesi artisti e personaggi dello sport tra cui il popolare commentatore di calcio Adel Ferdosipour e l'ex calciatore internazionale Ali Daei, è tornato in prigione. Il sistema della «qisas», una variante islamica della legge del taglione, stabilisce infatti che le famiglie delle vittime possano intervenire sulla pena di morte e non sulle sentenze carcerarie. Ma la sua storia vera ha galvanizzato i 140 mila firmatari della petizione per il perdono di Reyhaneh Jabbari, la 26enne in attesa della sentenza di morte per l'omicidio di un membro dei servizi segreti che, ripete lei, voleva violentarla.
Twitter @frapac71
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