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Quirino Conti per Dagospia
Intanto che il Paese si avventurava pensoso in ipotesi sull'identità dell'iconoclasta - o, più esattamente, del demolitore di Stili - al lavoro tra le nobili monumentalità romane, e chi lo vedeva un rinato Duchamp - colto dissacratore di capolavori e luoghi comuni monumentali -, chi un reclamatore di diritti, chi un nemico giurato dell'ordine e chi persino un nuovo, ennesimo emissario del malaffare pronto a seminare disordine e discredito al cuore delle istituzioni, ecco, dal cilindro dell'ineffabile Foucault, uscire l'ennesimo, provvidenziale "folle". Al quale imputare ancora una volta tutto il male del mondo: non sapendolo interpretare né correggere, quel male, e tantomeno sanarlo.
Un nuovo "folle" dunque, che, su incarico del buio soggiacente a ogni società costituita, si erge a massacratore della perfezione e a demolitore delle narcisistiche megalomanie autorappresentative di una civiltà .
Detto fatto: e il reo confesso appare su ogni media meritevole di attenzione, così come a loro tempo il ladro della Gioconda, il massacratore della Pietà di Michelangelo, e via via tutti quelli che, persino un po' dadaisticamente, tra L'urlo di Munch e Merde d'artiste, hanno cercato, con gesto irragionevole e atterrente, di indicare nel "nero" una loro qualche ragione. Tanto da muovere a riflessioni cosmologiche persino più di un ministro del corrente governo.
E così, grazie al cielo, il "folle", comme d'habitude, è stato reso inoffensivo nei fumi di un "volontario" esilio farmaceutico. Persino consentendogli di affermare tutta la sua sorprendente indignazione - tra il tragico e il ridicolo - per il fatto che neppure un cane, tra i presenti, si sia scagliato contro di lui per bloccare la sua violenta opera demolitrice. E quell'assoluto odio per gli idola mundi.
Tutto ciò, secondo le cronache, da perfetto "senza fissa dimora", in t-shirt, sneakers di marca e colore inconfondibili, e jeans ben aggiustati in vita. E laddove uno strappo al ginocchio avrebbe detto tutto il suo disagio - se non l'appartenenza a un colto citazionismo D&G -, quell'invisibile strappo era invece emendato da una perfetta toppa in pelle: perfetta e cucita con massima precisione. Ragionevolmente e con volontà di accuratezza e decenza. Insomma, un "folle" devastatore ordinatissimo e insofferente alle lacerazioni, sottolineerebbe Lacan.
E così, reso inoffensivo il pazzo, il dotto, estemporaneo cultore di cicli stilistici poté finalmente riposare in pace. E tutti, tutti a interrogarsi poi sulla natura di quel brano di scultura, e su quel capriccio di fontana, e su quella piazza che, dopo gli infuocati Scipioni di Scuola Romana, sempre più rassomiglia a un tiepido, confuso semicupio; ignorato da tutti fuorché da gabbiani e piccioni molto defecanti.
Come se la cura del passato e delle sue successive, diverse modernità , non fosse che un bel sentimento da coltivare a lunghi intervalli, come il Natale; anche ignorandone del tutto ragioni e sostanza e, nel caso specifico, senza cogliere l'autentica portata simbolica di un simile gesto.
Giacché, nudi di certezze, ma anche di dubbi, e accuratamente senza più uno stile quale che sia, siamo tutti follemente - è proprio il caso di dirlo - alla ricerca di qualsiasi capro espiatorio al quale imputare una tale, eccezionalissima e tragica condizione.
Miseramente senza uno stile, senza un volto, senza una forma che possano farci riconoscere l'un l'altro sulla zattera di un cupio dissolvi quasi senza precedenti. Dal momento che persino le greggi al pascolo tra i ruderi del Foro romano avevano uno stile.
E invano Bernard Berenson tornerebbe a chiedersi: "E in che stile?", giacché ora, da stragriffati ex stilomani onnivori e mai sazi, nessuno saprebbe più davvero cosa rispondergli. Mentre ci affrettiamo a porgere l'alibi della follia a chi a mano armata, per nostro conto, si scaglia sulla bellezza incustodita per violarla e deliberatamente scempiarla. A nome di tutti. Perché inservibile.
"E in che stile?" Per un po' di visibilità , si è detto, con sneakers colorate e griffate ai piedi, t-shirt, jeans ben stretti in vita e una perfezionista - persino minimale - toppa di pelle al ginocchio: così da emendarne e restaurarne lo strappo.
Altro che le bombette dei futuristi - "chiacchieroni e provinciali", secondo Cocteau - e il fiocco nero degli anarchici, a cavallo tra Ottocento e Novecento, infervorati di idee! O il collo di astrakan e relativo colbacco degli elegantissimi sovversivi esiliati a Ginevra e già pronti a scuotere il mondo. Qui si è dinanzi al mastodontico ossimoro di un jeans delavato e recuperato alla perfezione contro un monumento sfregiato. O forse è l'identica cosa.
Così che a Londra, chissà perché, si è stabilito ex cathedra che il post-moderno si è concluso ("Postmodernism: style and subversion, 1970-1990", dal 24 settembre al Victoria & Albert Museum) con data e magari ora precisa del decesso. Tanto che persino Vattimo se n'è innervosito: all'idea di dover divenire un po' più solido.
E pesta i piedi, volendo restare leggerissimo (e post-modern?); adesso che a discuterne e a dibatterne sono tornati numerosi persino altri filosofi. E Severino disserta sul nuovo peso del reale. Se mai esistente oltre la sua interpretazione.
Mentre senza un nome (dunque, neppure più post-moderni), gelosi del complesso e di chi un nome e una forma li ha avuti davvero, in t-shirt, jeans rattoppati e celestiali sneakers ci avventiamo su qualsiasi bellezza, quale che sia, pur di ridurla in frammenti. In schegge alla nostra portata.
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