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DAGOREPORT - LA DUCETTA SUI TRUMP-OLI! OGGI ARRIVA IN ITALIA IL MITICO PAOLO ZAMPOLLI, L’INVIATO…
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1. QUELLA ROTTURA DAGO-JOVANOTTI
Dall’intervista di Gian Antonio Stella per “Sette Corriere della Sera”
Hai fatto pace con Michele Serra?
«Siamo diventati amici. Quasi tutti i più severi con me all’inizio sono poi diventati amici. Spesso carissimi».
È successo anche il contrario?
«Con Roberto D’Agostino ad esempio. Mi fece perfino la prefazione a un libro, Yo, anni fa. Mi invitò a casa sua. Ero affascinato da lui e dal suo mondo. Era l’estetica di Arbore, di Quelli della notte».
Poi?
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«Si ruppe qualcosa quando cominciai a prendere qualche posizione politica. Diceva: no, devi restare quello che eri... Avrà avuto le sue ragioni. Anche se, devo dire, non c’ho perso un’ora di sonno».
2. L’ARTICOLO DI DAGO, ANNI ’90, CHE SBERTUCCIAVA IL JOVANOTTISMO
Roberto D'agostino per Il Messaggero del 1994
Tutti uguali questi ragazzi-prodigio. Partono a razzo, vanno fuori di testa poi finiscono fuori orario, fuori binario, come l'ex Jovanotti yé-yé, nato Lorenzo Cherubini, di professione idolo dei teenager, ma ormai così inquieto e pretenzioso che è finito sul materasso del conformismo cantautorale, del velleitarismo politicante, dell'estremismo retorico oggi tanto di moda.
Sembrava che studiasse per diventare un Battisti da discoteca, è diventato un "celentanino" tromboneggiante le consuete opinioni generosamente generiche, ingenuamente ideologiche, ovviamente sentenziose che ci aspettiamo, che temiamo. Siate buoni, se potete. Vogliatevi bene. E vogliatene anche agli extracomunitari, giacché ci siamo.
Con quell'aria pentita, il pizzetto da incazzato, l'occhio infelice, la maglietta stagionata e la braga espansa, che è la divisa di ordinanza dei nuovi rivoluzionari del rap, si è messo a fare grandi discorsi, travolto da un'inarrestabile voglia di dire la sua, di dividere il mondo in buoni e cattivi, di improvvisarsi intermediario tra i giovani disorientati e una politica che ha perso la bussola.
Dopo aver seppellito proditoriamente il Jovanotti funambolico degli anni Ottanta, il jovanottismo spensierato di "E' qui la festa?", "Un, due, tre, casino!", "Gimme five", sbandierando che "Il disimpegno è acqua passata", ecco dunque l'ex "profeta del cretinismo integrale" (definizione di Michele Serra) che conquista le colonne dei settimanali d'opinione, discettando di Dio, Marx e Berlusconi.
Senza troppo sottilizzare, frusta i governanti, canzona i politicanti, denuncia la mafia, spiegando a tutti come dovrebbero andare le cose nel nostro benedettissimo Paese. In "Penso positivo", brano-manifesto della sua opera-compact, l'ex "giovane scemo" concretizza così la sua ansia da singhiozzo: "Io credo che a questo mondo esista solo una grande chiesa.che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa, passando da Malcom X attraverso Gandhi e San Patrignano, passando da un prete in periferia che va avanti nonostante il Vaticano". Bastava aggiungere una tappa al Mulino Bianco, ed era tombola.
Povero ragazzo. Dai e dai, a forza di tracimare in campi a lui sconosciuti (la palude italiana, la politica internazionale, l'ecologia, l'ecumenismo espanso, l'ascesi mistica), anche il più modesto e ritroso degli esseri viene colto dal sospetto che il Destino lo abbia chiamato a diverso e più alto compito.
Essì: Jovanotti, che pur stonando anche quando dorme resta sempre uno dei migliori professionisti della musica giovane, soffre forse della stessa candida(?) sindrome del Savonarola che ha colpito i vari Dalla, Battiato, De Gregori, Zero, Venditti, Piero Pelù. Cominciò Celentano a pirleggiare sulla crisi dell'Occidente, nonché della Chiesa e della Famiglia. Poi Gino Paoli si è fatta la sua brava legislatura da deputato al parlamento. Non pare che abbia lasciato luminose tracce nella nostra legislazione. Quanto sarebbe stato meglio se avesse riversato le sue opinioni, comizi, anatemi legiferanti in qualche altra bella canzone. Di quelle che sapeva e sa fare lui.
Ecco: il grande "errore" del Jovanotti vestito di Nuovo, bardato da "opinionista" militante, è proprio un equivoco di forma: credere che sia sufficiente il buon impegno del Bla-Bla per opporsi ai problemacci della vita. La musica pop è una fabbrica al lavoro per la normalizzazione dell'insolito; per il Jovanotti d'oggi è invece una gabbietta dorata in cui rinchiudersi a fare il pappagallo della banalità.
3. JOVANOTTI «DA PICCOLO GIOCAVO SUL PAVIMENTO DELLA CAPPELLA SISTINA”
Gian Antonio Stella per “Sette Corriere della Sera”
“Ogni tanto, da bambino, facevo le scivolate sul pavimento della Cappella Sistina”. Ma dàa: la Cappela Sistina! “Il pavimento era liscio. Lustrato da secoli. Prendevo la rincorsa e via! Adesso immagino che siano cambiati i sistemi di sicurezza ma allora ci arrivavo, da casa, passando tre portoni. Tre. Entravo da una porta vicinissima alla casa del Vaticano dove abitavamo, dietro la Sala Nervi.
Passavo il cortile di San Damaso dove lavorava papà e siccome mi conoscevano tutti... Era fantastico, il Vaticano. Per me era come se ‘l mì babbo lavorasse agli Universal Studios. Un grande luogo di spettacolo».
Va da sé che Lorenzo Cherubini, avendo vissuto da piccolo il centro della Chiesa come un grande parco giochi, non ha mai rischiato di diventare “don Lorenzo”: «Credo che neppure mio papà ci avesse mai fatto un pensiero. Però sì, lui sperava che almeno uno di noi fratelli seguisse le sue orme. Invece...».
Invece lui è diventato una rockstar. Così amato da generazioni successive di ragazzi da piazzare i suoi dischi in classifica per ventisette anni consecutivi, dal lontano 1988. Quando Michail Gorbaciov assumeva la carica di capo del Soviet Supremo, Bernardo Bertolucci faceva incetta di Oscar con L’ultimo imperatore e lo scudetto veniva vinto dal Milan di Ruud Gullit. Senza mai uno scivolone.
Lo aspettavano al varco con l’ultimo, Lorenzo 2015 CC.: sarebbe riuscito anche stavolta, l’ex dj che viaggia sereno verso la cinquantina dopo essere stato lanciato da ragazzino con un berretto da baseball, le braghette corte e la faccia da schiaffi («lobotomia musicale», borbottò Michele Serra) a conquistare di nuovo la hit-parade? Quattro giorni dopo il lancio, era già in vetta. E come ti giri c’è qualcuno per strada che canticchia: «Si alza il vento / bisogna vivere / non c’è nemmeno il tempo / per riflettere...».
RENZI E JOVANOTTI , APICELLA E BERLUSCONI
Come fa? Non sta mai fermo. Non solo fisicamente, dato che dopo aver girato il mondo spingendosi in bicicletta fino in Patagonia («Arrivare fin quaggiù e arrivarci da solo, con le proprie gambe, è fare un viaggio fino alla periferia del rapporto con se stessi, è mettersi alla prova, è cercare, non scappare...») da qualche anno va avanti indietro da New York dove si è trasferito. Non sta mai fermo nel linguaggio, nei generi musicali, nelle scelte tecnologiche che “agghindano” le canzoni e i video... L’unica bricola alla quale resta legato pare essere la famiglia. La moglie Francesca, la figlia Teresa, il papà, i fratelli...
Com’è stato il trasloco da una cittadina come Cortona a New York?
«Abbastanza semplice. Perché New York è una città che ha talmente formato il nostro immaginario che hai sempre l’impressione di esserci già stato e di tornarci. Lo choc culturale è stato quello di passarci del tempo. Molto tempo».
Ci vivi ormai da...
«Due anni. Ma in realtà vado e vengo. Non ho l’idea di abitarci. Sono partito per un anno perché dovevo fare dei concerti e questo periodo coincideva con il primo anno di liceo di mia figlia. Aveva fatto le elementari e le medie a Cortona e con mia moglie abbiamo pensato: beh, potrebbe essere formativo, per lei, vivere un anno a New York, la iscriviamo alla scuola italiana, le regaliamo la padronanza dell’inglese e poi torniamo indietro...».
Poi gli anni son diventati due, ora diventeranno tre... Non sarà facile, forse, riportarla a Cortona.
«Vedremo. L’università sarebbe meglio se la facesse in Europa. Non so se vorrei che vivesse in America. È una società dura. Spietata. Poi, certo, se hai un bel progetto scientifico ti danno tanti soldi che da altre parti te li sogni. Ma sulle amicizie, i rapporti umani...».
JOVANOTTI E MATTEO RENZI FOTO LAPRESSE
Tu in America non sei il divo che sei qua, giusto?
«Ho fatto tante cosine. Ma l’America è talmente grande che puoi fare concerti con migliaia di persone senza che nessuno lo sappia. È talmente frammentata...».
Non essere riconosciuto per strada immagino che ti piaccia...
«Oddio, non è che a me la popolarità pesi. Non mi ha mai tolto concentrazione».
Hai fatto pace con Michele Serra?
«Siamo diventati amici. Quasi tutti i più severi con me all’inizio sono poi diventati amici. Spesso carissimi».
È successo anche il contrario?
«Con Roberto D’Agostino ad esempio. Mi fece perfino la prefazione a un libro, Jo, anni fa. Mi invitò a casa sua. Ero affascinato da lui e dal suo mondo. Era l’estetica di Arbore, di Quelli della notte».
Poi?
«Si ruppe qualcosa quando cominciai a prendere qualche posizione politica. Diceva: no, devi restare quello che eri... Avrà avuto le sue ragioni. Anche se, devo dire, non c’ho perso un’ora di sonno».
Ci sono persone di cui invece soffri il giudizio?
FABIO FAZIO E LORENZO JOVANOTTI
«I giudizi li soffro sempre un po’. Meglio: non li soffro se sono pretestuosi. Allora non me ne importa niente. Mi tocca la carne viva se qualcuno dice una cosa che in fondo in fondo penso anch’io».
Duro con te stesso, ma se è duro qualcun altro...
«Soffro in silenzio, però. La litigata non è una cosa mia. Perché perdo. Perdo sempre. Se qualcuno alza la voce divento piccolo piccolo. Anche all’oratorio ero uno che le prendeva le botte, non le davo. Ho sempre sofferto le liti. Anche in casa. E i miei, purtroppo, litigavano molto...».
ALBERTINO E JOVANOTTI ALLA FESTA PER I ANNI DI RADIO DEEJAY jpeg
Ho letto che tua mamma era molto malinconica.
«Oggi non si dice più ma allora dicevano che mia mamma aveva l’esaurimento nervoso. Faceva la casalinga, aveva quattro figli. Lavorava sempre...».
Tuo padre Mario invece era funzionario in Vaticano.
«Era entrato come gendarme. Stava a Cortona, era molto alto e a diciott’anni il parroco gli disse: guarda che in Vaticano cercano gendarmi. Visto che c’è un accordo con l’Italia, invece che fare la naja... Lui andò a Roma a trovare un cardinale amico del parroco e fu preso. Fece il gendarme cinque anni, poi si congedò e fu assunto come impiegato. C’è rimasto cinquant’anni. E pur non avendo titoli di studio ha fatto varie cose».
Cioè?
«Gliel’ho chiesto ma non risponde volentieri. Negli ultimi anni lavorava “nelle amministrazioni”... Ha lavorato nella Sicurezza. In alcuni palazzi extraterritoriali. Insomma, il factotum. E lo ha fatto con immenso amore. Era pazzo del Vaticano. Conserva un foglio con le dediche non so se di cinque o sei Papi».
Qual è quello che gli è piaciuto di più?
«A mio padre sono piaciuti tutti i Papi. Tutti. Gli piaceva perfino Marcinkus! Diceva che era una gran brava persona. Mano a mano, stando lì, cominciò ad appassionarsi all’arte. Alla bellezza. E questo per me è stato molto
FIORELLO JOVANOTTI E CLAUDIO CECCHETTO ALLA FESTA PER I ANNI DI RADIO DEEJAY jpeg
importante. Molto».
Il ricordo più netto?
«Il silenzio. Fuori c’era il caos di Roma. Il traffico. I clacson. Entravi e c’era il silenzio. Strade vuote. Giardini. Una macchina ogni tanto...».
Il papà era un gendarme anche a casa?
«Sì, aveva un po’ interiorizzato il ruolo. Coltivò per anni amicizie vaticane sperando che un giorno avrebbero fatto “svoltare” anche noi figli».
Ti vedeva già gendarme, man mano che crescevi alto?
«Non so se gendarme o cos’altro ma è stata una grande delusione, per lui, che nessuno di noi figli sia poi entrato in Vaticano...».
Ti piace Francesco?
«E a chi non piace? È come la Coca-Cola. Come può non piacere? È formidabile. Un uomo di comunicazione nell’era della comunicazione. La rinuncia all’auto blu, la borsa che si porta da solo... Sono segnali che valgono un’enciclica. Così come le parole sulla diversità: “Chi sono io per giudicare?”. Quella è Storia».
I tuoi erano molto cattolici?
JOVANOTTI E FIORELLO A SANREMO
«Mio papà è un cattolico, diciamo così, “istituzionale”. Mia mamma Viola aveva una fede più profonda. È morta nel 2009. Era lei pure di Cortona».
Quindi anche tua figlia si troverà un marito di Cortona: papà e mamma di Cortona, tu e Francesca di Cortona... «Donne e buoi dei paesi tuoi: dici che siamo ligi al proverbio? Non è che Cortona sia un minuscolo paese di montagna dove sono tutti consanguinei, via...».
Dicevi di tua mamma...
«Quando noi figli eravamo piccoli non aveva neanche il tempo per dedicarsi alla fede. Me la ricordo sempre in cucina. Via via che crescevamo si è legata sempre di più alla chiesa, alla parrocchia, al volontariato. Andava dal padre Pio, a Medjugorje...».
jovanotti e corrado rizza al gilda
Ringo Starr ha detto di aver capito cos’è la celebrità il giorno in cui sua mamma gli parlò in maniera diversa.
«Sì, è un po’ così. Anche con papà. È una sensazione sottile. Molto sottile. Credo sia inevitabile, in una famiglia semplice. Normale».
Dopo il successo cosa hai regalato ai tuoi?
LORENZO JOVANOTTI CHERUBINI GABRIELE MUCCINO
«Niente di speciale. Non sarebbe stato giusto nei confronti dei miei fratelli. E poi mio papà non avrebbe mai accettato. Il fatto che io potessi guadagnare di più non ha cambiato niente fra noi. Semmai son diventato ingombrante. La fama è una patata bollente. È difficile da gestire».
Eri giovanissimo, quando sei esploso.
«Avevo ventuno anni. Successe tutto nell’arco di due o tre mesi. Grazie a Claudio Cecchetto. È stato un po’ il mio colonnello Parker. Il manager di Elvis Presley. Mi proteggeva perché il successo a vent’anni è pericoloso. È facilissimo uscire di senno. È successo a tanti».
Hai rischiato anche tu?
«No. Forse perché avevo già qualche anno di anzianità avendo cominciato prestissimo. A sedici anni facevo il disc jockey nei locali notturni».
LORENZO CHERUBINI JOVANOTTI E MOGLIE - copyright Pizzi
Tuo padre non sveniva?
«Sveniva. Fu una lotta durissima. Minacciava sfracelli: “Vengo lì e denuncio quelli ti fanno lavorare!”. Ma io ero risoluto. Facevo il liceo scientifico. Sapevo che se avessi dimostrato di non aver problemi scolastici tutto si sarebbe appianato. Essere promosso era il mio passaporto per esser libero. La scuola era solo un ingombro che mi volevo togliere dei piedi».
E da allora tappi i buchi che ti sei lasciato dietro.
«Esatto, da allora tappo i buchi. Anche se questa è stata allo stesso tempo una fortuna. Perché finisci per leggere Guerra e pace a quarant’anni e alla fine te lo godi di più. Da ragazzo ho letto poco, adesso leggere mi piace moltissimo. È parte della mia vita».
Quando ti sei reso conto che avevi davanti più spazio di quanto potessi sognare?
«Me lo sono un po’ creato, questo spazio. A un certo punto ho cominciato a pensare che la forma-canzone fosse quella giusta per esprimermi. Anche se all’inizio non sapevo se sarei stato all’altezza di poter cantare delle melodie. Per me è una crescita continua. Anno dopo anno. Non solo musicale».
Roberto Cotroneo, nel ‘99, scrisse: «Troppo poco naïf per essere un vero predicatore, troppo ragazzino per vantare un carisma, troppo usuale per scrivere testi d’autore, troppi giri di “do” per dirsi compositore, anche se parliamo di canzoni facili facili. Troppo ex-rapper e troppo stonato per dirsi cantante. Eppure questo ragazzo simpatico e perbene piace a molti. Questa alchimia di mezzi difetti, che sarebbero letali per chiunque, per Jovanotti è un’arma di successo formidabile».
«Aveva ragione. Tutto vero».
E concludeva: «Se lui ne è consapevole è un genio».
«Non posso esserne consapevole. Perché io canto e scrivo meglio che posso. “Consapevole” che vuol dire? Che potrei scrivere e cantare meglio ma non lo faccio perché va bene così? Sono consapevole, questo sì, che i limiti possono essere una ricchezza. Cosa significa “saper cantare”?».
Risponditi.
«Saper cantare un’opera significa qualcosa. Ma le canzonette...». Stai scrivendo qualcosa in inglese? «Ci ho provato... Nei concerti in America faccio già delle cose in inglese. Mi son tradotto da solo Fango».
Perché non ti affidi a un paroliere madrelingua?
«No. Per quello che diceva Cotroneo. Credo che certi testi, se non sono fino in fondo miei, perdano l’“equilibrio instabile” che probabilmente è la loro forza. Quando subentra il “mestiere” perdono l’immediatezza. O almeno mi è successo così con tutte le canzoni. Anche quelle tradotte in spagnolo. Diventano “strutturate”, magari sono perfette ma perdono un po’ di magia. In Ragazzo fortunato c’è perfino un errore di grammatica: “non c’è niente che ho bisogno”. Ma va bene così».
Qualcuno ti ha fatto le pulci.
«Ci sta. Anche l’Accademia della Crusca, però, ha fatto uno studio sul mio linguaggio. Partendo da Serenata rap dove avevo, come dire?, contaminato Dante, Paolo e Francesca e un po’ di gergo giovanile: “Amor, ch’a nullo amato amar perdona, porco cane”».
A proposito di parole, è vero che “Jovanotti” fu un errore di stampa?
«Sì. Mi ero scelto, all’americana, il nome “Jo Vanotti” ma il grafico, al telefono, capì male».
Botta di fortuna!
«La vita è fatta di botte di fortuna. Quella lo fu sicuramente».
Te lo senti ancora tuo, quel nome che via via ha lasciato spazio a Lorenzo Cherubini?
«Scherzi? Più divento anziano e più è aderente. È un nome più forte per un ottantenne che per un ventenne. Pensa Jovanotti a ottant’anni!».
Quanti dischi hai venduto?
«Non ho idea. Sette o otto milioni? Di più? Una decina? Non lo so davvero. Sono impreparato».
Fatto sta che non c’è stato anno in cui non sei andato in classifica: mai un vuoto.
«È vero. Non c’è mai stato un vero “down”. Anche se alcuni dischi sono andati meno bene...».
Ingiustamente?
«No. Se qualcosa non funziona c’è sempre una ragione. Non esistono, per me, canzoni incomprese».
Ma tu lo sai, dentro di te, come succede a chi scrive libri, se una canzone è venuta davvero bene o no.
«Non so... Magari speri che non se ne accorgano... E comunque attraverso certe porte sai che devi passare. Non è che io “scrivo canzoni belle”. Scrivo canzoni. Canzoni belle e canzoni brutte. Ogni tanto mi riesce quella forte».
Scrivi di notte o di giorno?
«Scrivo sempre. La mattina, la sera... Mi annoto una frase, un’idea, un giro di note. Sempre. Poi ci sono momenti in cui stacco. Stacco davvero. Anche se mi viene un’idea non la scrivo. Ci son periodi in cui non ascolto musica. Al massimo ascolto Bach».
Paul McCartney dice che se fa un concerto con rockstar che ama gli vien voglia di chieder loro l’autografo: capita anche a te?
«È così. Si diventa delle rockstar, in fondo, perché amiamo le rockstar. Ricordo che da ragazzino tutto mi affascinava di quel mondo. Tutto».
Ci sono ancora le groupie girl a caccia di rockstar?
«Sì. Poi ti sposi e cambia tutto. Anche prima, però, non è che io... Le cose facili non mi piacciono. E poi sono monogamo. Quella del matrimonio è una esperienza che proprio mi piace».
Sei meno monogamo nella musica: qual è il momento in cui dici «devo cambiare»?
«Appena mi accorgo che mi sto annoiando. Che mi sto ripetendo. Me ne accorgo io prima del pubblico. Anzi, il pubblico talvolta vorrebbe essere rassicurato. Vorrebbe non cambiassi mai. Invece occorre fare come i contadini».
Cioè?
«Vangare perbene il terreno, rivoltare la terra, cambiare coltura. Anche la musica va coltivata. Magari occorre cercare una timbrica nuova. O lavorare sul linguaggio. La musica non invecchia mai, il linguaggio sì. Oggi non potrei mai cantare “fatti mandare dalla mamma a prendere il latte”. Il punto è: come posso dire la stessa cosa oggi con parole di oggi?».
Anche il linguaggio d’amore invecchia?
«Soprattutto. Pensa a “Vola, colomba bianca vola”!».
Eppure anche a tua figlia piacciono canzoni che avevi scritto quando non era ancora nata.
«Sì, a volte scatta una magia. Per quest’ultimo disco è venuta in studio, ha seguito la registrazione...».
Suona?
«No, ho provato a farle fare il violino da piccola, perché aveva scelto lei. Era anche bravina. Ma far suonare il violino, oggi, a un bambino occidentale... la disciplina...».
Tu sei disciplinato?
«Sì. Ci provo, almeno. Tornando a Teresa, c’è sempre il problema della “instant gratification”. Se non c’è la gratificazione istantanea, oggi, è difficile far passare qualunque cosa. Anche in politica è così».
Che ti manca, a New York, dell’Italia?
«Tutto. E mi manca ‘l mì babbo».
Avete ricostruito un buon rapporto?
«L’ho sempre avuto, un buon rapporto. Anche quando ci scontravamo. È cambiato molto dopo la morte di mio fratello Umberto, caduto con l’aereo nel 2007. È diventato più affettuoso. Più emotivo. Ha cercato di recuperare. Ci è riuscito».
Ti ha mai detto: questa canzone è proprio bella?
«Lo spartiacque è stato Pavarotti. Quando mi chiamò per la seconda edizione di Pavarotti&friends. Portai la mamma e il babbo a vedere lo spettacolo e poi in camerino da lui».
E finalmente anche per loro eri legittimato.
«Fu lo spartiacque. Come le presenze alla Rai. Essendo ‘l mì babbo istituzionale, contava solo la Rai. Potevo andare a Mediaset anche tutti i giorni: restava un gioco. Se mi vedeva con Pippo Baudo invece, ero legittimato. Del resto, è sempre stato democristiano».
A proposito di politica: com’è che nonostante le tue idee non sei mai stato davvero nel mirino dei destrorsi?
«Forse riconoscono la mia onestà intellettuale. Io dico come la penso ma non son mai stato un militante. Mai. Sono un artista. E rivendico la libertà di schierarmi all’americana. Per esempio non ho fatto mistero di appoggiare Renzi sia nelle prime sia nelle seconde primarie».
Come lo vedi, oggi?
«Ha alcune grandi qualità e alcuni limiti evidenti. Anche nel suo modo di comunicare. In ogni caso è riuscito a creare molto consenso intorno ai suoi obiettivi. E parla delle cose di cui bisogna parlare...».
Berlusconi?
«Qualche volta ti fa tenerezza. Poi ti dispiace pure perché preferiresti essere incazzato ma...». Forse dispiace a lui stesso: meglio insultato che compatito. «Certo, è una ferita all’orgoglio. Tutto si può dire, meno che sia un combattente».
Salvini?
«Non mi piace, gli sono ostile, ma mi pare forte. In ogni caso vorrei che queste cose venissero lette all’americana. Io non canto per il Pd: mi vergognerei. Canto per tutti. Anche per gli elettori di Salvini. La politica non è tifoseria. E la musica deve unire».
Qual è la gioia più grande, per te?
«Fare una canzone che poi viene cantata in macchina a squarciagola da uno che va al lavoro. E magari sua figlia l’ascolta nelle cuffiette mentre va a scuola...».
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