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Marco Ansaldo per "La Stampa"
Li chiamano cinguettii ma i tweet di Mario Balotelli non hanno la leggiadria del verso di un passerotto. Sono rumorosi. Aggressivi. «Ho cominciato a farli - ha spiegato nei giorni scorsi - quando ho capito che su di me circolavano troppe stupidaggini non vere». Adesso grazie a Twitter le stupidaggini continuano a circolare però sono vere perché vengono dalla fonte.
Non ci sembra un grande passo per l'umanità . Balotelli, come Grillo, è convinto che saltando gli intermediari (i giornalisti) si faccia un'informazione più trasparente e meno equivoca: entrambi hanno qualche ragione per crederlo ma da quando è entrato l'uso, talvolta l'abuso, dei «social network», si sono moltiplicati i messaggi destabilizzanti, pericolosi e sbagliati nella misura e nel tono.
Nel giro di 8 giorni l'attaccante milanista ha messo in circolo due tweet che ha dovuto correggere: il primo, sul molto presunto spaccio di droga a Scampia, è stato cancellato non appena il Milan ne ha preso visione; il secondo, dopo il match di Praga, ha richiesto un messaggio di scuse da parte del giocatore.
Come trasparenza di pensiero non è il massimo perché i casi sono due: o Balotelli spara tweet senza riflettere oppure cambia versione per convenienza, rendendo l'informazione inquinata. Il narcisismo che porta molti a twittare, convinti che il mondo sia in attesa del loro pensierino, talvolta produce danni. Nello sport i casi si sono moltiplicati. Uno degli ultimi ha avuto protagonista Kobe Bryant che ha sparato a raffica i propri giudizi mentre assisteva all'eliminazione dei Lakers dai playoff del campionato di basket americano. Immaginate la felicità del suo allenatore. Come per i tweet della signora Sneijder mentre il marito era in crisi con l'Inter e così via.
Negli sportivi si è creato un modo curioso e folle di pensare: è come se ciò che è poco opportuno aver detto a un giornalista (sempre colpevole di aver male interpretato le parole se si crea una polemica) diventasse lecito e meno deflagrante quando è affidato a un social network aperto a milioni di persone.
La risposta al dilagare del fenomeno è nel divieto. La Juve, come altri club, già impone ai propri tesserati di non twittare sulle questioni sportive. Prandelli proverà a farlo in Nazionale, benché non abbia uno strumento giuridico, come è un contratto, per imporre l'obbligo. Il calcio mette il bavaglio in rete e un po' ci dispiace. Perché l'imbarazzo e il fastidio che colgono, per un tweet incontrollabile, i dirigenti, gli addetti stampa, gli sponsor, i procuratori, insomma quanti pretendono che si presenti domanda in carta da bollo per ottenere l'intervista da un calciatore e mettono cento paletti per effettuarla, sono tra le cose che ci rendono più divertente la vita.
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