DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Davide Brullo per www.linkiesta.it
helena janeczek vincitrice del premio strega 2018 (6)
Il bastone estivo. Libri da ombrellone è l’analogo di cinepanettoni, una pernacchia all’intelligenza nostra. Se si è sotto l’ombrellone, si presume che ci sia tempo per leggere: perciò sarebbe bene passare il tempo cullati da letture assolute, non smarriti dall’ennesimo giallo avariato che offre l’editoria italica, in avaria da decenni. Il primo consiglio, perciò, è mettere consiglio e leggere Dostoevskij, Tolstoj, Kafka, Eschilo, Melville. Autori che tramutano l’ombrellone in shuttle e vi cambiano la vita, lunatica. Ma visto che non lo farete, con rapacità aforistica – altrimenti vi va in brodo ciò che resta del cervello estivo – vi dico cosa non leggere. Ed eventualmente, cosa è bene leggiate per risanare le meningi.
Narrativa. La ragazza con la Leica (Guanda), di quel Premio Strega di Helena Janeczek, è l’esatto barometro della narrativa italiana contemporanea. Storia risaputa (quella di Gerda Taro), vagamente femminista, di una che sta dalla parte giusta (antinazista, fa la comunista, si schiera contro Franco, durante la guerra civile spagnola) e frequenta il bel mondo (Hemingway, Orwell, Neruda, e, ovviamente, Robert Capa, l’amato).
Insomma, nessuna sorpresa, nessuna riabilitazione di personaggi sinistri, scontrosi, inafferrabili, paltò di frasi fatte (“A Barcellona, in quel principio d’agosto del 1936, stanno arrivando in tanti per unirsi al primo popolo d’Europa che non ha esitato ad armarsi contro il fascismo”), stile sudaticcio, improbabile, incomprensibile (“La rivoluzione è un giorno qualsiasi in cui si esce a fermare il golpe che vuole soffocarla, ma senza rinunciare a una tregua che fa festa”).
Un brutto libro, che letto sotto il solleone rischia di farvi venire la depressione. Tranquilli, però, la narrativa italiana è viva, vibra: basta cercare nei bunker e ignorare le classifiche dei libri più venduti (recentemente, mi ha sorpreso La perseveranza di tale Davide Rosso, pubblica Italic Pequod: almeno c’è il tentativo di una scrittura cruda, di una vicenda cruenta, si sente la fatica, il fato, l’abbrivio del delirio).
serena dandini il catalogo delle donne valorose
D’estate, d’altronde, non c’è scampo, vi credono più scemi che nel resto dell’anno: non si sfugge all’ennesimo arancino rancido di Andrea Camilleri (Il metodo Catalanotti, Sellerio) al solito giallo scritto dai soliti giallisti (Maurizio De Giovanni, Marco Malvaldi) oppure alla scemenza narrativa di una baby youtuber, sperando che il fenomeno da baraccone social possa benedire la carta stampata, mentre la tramuta in carta straccia (il caso di #Ops di Elisa Maino è tragicamente esemplare, basta l’incipit per sedare la voglia di affrontarlo pur con sguardo antropologico, “Occhi del colore del mare, lui le sorride e le sfiora la mano, lei arretra di qualche passo, come un cerbiatto davanti al cacciatore”). Meglio farsi un bagno e nuotare a lungo, è più salutare.
Saggistica. Come Scilla e Cariddi ghignano nei vostri incubi estivi le Gemelle Kessler dell’editoria, Serena Dandini e Selvaggia Lucarelli, a cui ho già fatto le totò qualche puntata fa, senza che ciò sia servito granché.
La Dandini continua ad allineare una bibliografia di libri inutili, con spudorato sforzo: Il catalogo delle donne valorose (Mondadori), che assembla senza altra logica che la vagina Ilaria Alpi e Karen Blixen, Grazia Deledda e Monica Vitti – come se tutte le donne fossero la stessa cosa, fossero uguali e intercambiabili – è più insostenibile che leggero, non c’è sale né stile (d’altronde, per scrivere una biografia ci vogliono le palle di un Marcel Schwob e la sapienza femmina e assoluta di Serena Vitale).
selvaggia lucarelli casi umani
Il libro è una offesa al gentil sesso, da spappolare i sepolcri: le femministe coi fiocchi pasteggiano a Virginia Woolf e Sylvia Plath.
Chissà se Selvaggia Lucarelli, “senza dubbio la donna più influente del web italiano” (così la pudica dida biografica), s’è mai fatta seviziare da una quartina della Dickinson, probabilmente no, visto l’imbarazzante paddock di libri che ha accumulato.
Casi umani (Rizzoli) pare scritto per le pari età della tettuta Selvaggia: donne costantemente distrutte “da una storia sentimentale devastante”, con cervello preadolescenziale e perennemente in calore (fisico e mentale). Soprattutto, cosa c’importa dei fatti della Lucarelli, siamo messi così male da spiarla dall’oblò di un libro? Regaliamo un viaggio alla Dandini e alla Lucarelli, vadano a giocare a Thelma & Louise, facciano una trasmissione televisiva, qualsiasi cosa, pur di tenerle lontane dalle librerie patrie.
Poesia. I poeti fanno quadrato: pubblicano sempre gli stessi, d’altronde per un editore pubblicare poesia è una rimessa.
A rimetterci, per altro, quasi sempre, è il lettore, perché se i poeti – i soliti ammessi nel club – fanno quadrato è pur vero che non trovano ancora la quadratura lirica del cerchio, non sanno più scrivere in grande, accecandoci, hanno il retrogusto del già letto, già visto, già detto (l’ultimo libro buono, perciò vilmente snobbato, è Il moto delle cose di Giancarlo Pontiggia). Basta guardare la collana nobile dello ‘Specchio’ Mondadori, che per ‘far cassa’ pubblica i Lirici grecidi Salvatore Quasimodo (ancora) e Tutte le poesie di Milo De Angelis (che dal primo, folgorante libro, scrive pressoché la stessa poesia), e poi Giancarlo Majorino, Biancamaria Frabotta, Nicola Vitale, sembrano le nomine del consiglio di amministrazione della Rai, mai una novità, prima o poi arriva il tuo turno, tranquillo.
Da ciò che si è letto qua e là, il ritorno al libro di Antonio Riccardi, già boss in Mondadori, Tormenti della cattività, per Garzanti (collana lirica, per altro, tormentata dai soliti noti: i primi pubblicati sono Giampiero Neri e Franco Buffoni), non è folgorante. “Tre, per dire il retablo degli amori/ se tra le nicchie una sola diavolina/ dà fuoco al teatro dei ricordi”: se è vero che un poeta qualunque almeno una poesia la imbrocca, beh, questa, Falso titolo, antiporta, che apre la raccolta, è la poesia di un brocco.
La carota. Narrativa. Tra l’incipit (“Avevo finito per non riconoscermi”) e il finale (“…sarebbe stato mio dovere scriverlo”), tra il riconoscersi, la riconoscenza, il dovere e la scrittura si sviluppa un libro finalmente anomalo, anormale, fuori dai generi, colto e inafferrabile, Vita di un romanzo (Castelvecchi), finalmente ‘europeo’, cioè dentro quella scia che da Cervantes a Tolstoj, da Rabelais a Kundera, da Thomas Mann a Robert Musil, fa della scrittura la macelleria delle convenzioni sociali, un pensatoio, altare e tribunale dove l’autore scanna se stesso, pensa, si scuoia, raffina.
helena janeczek vincitrice del premio strega 2018 (3)
In questo che è il libro più alto – viene da dire, testamentario – di Andrea Caterini (già autore, tra il resto, di Giordano) la critica letteraria – in questo caso, il cuore è l’opera totale, tonificante, spiazzante, crudele di Marcel Proust – viene brandita per investigare la vita, al bando ogni scherno retorico, lo dice chiaro l’autore, “Mi ripugnava la prepotenza retorica della finzione”.
Da questo azzeramento del regime letterario costituito, nasce un romanzo che surclassa i generi, dalla densità inversamente proporzionale alla lunghezza (sono 124 pagine appena), pieno di frasi bellissime, che rincuorano, che bilanciano, io scelgo queste: “Ma che io è un risorto? Forse un io che ha smesso di soffrire e di amare, di provare piacere e dolore? O forse quella resurrezione, quello stile, è ciò che dà invece a tutto questo un senso?”; “Si può certo decidere di scappare da una responsabilità, rimandare una decisione, sovrapporre una falsa urgenza a quella che preme allo stomaco, come alleggerendo l’ulcera, leccandola un po’, ammansirla, addirittura prendersene cura per mai occuparsene veramente; ma come è possibile fuggire a se stessi?”. A me Caterini pare un Seneca che tira boxe in borgata per amor di geometria: leggerlo non vi farà passare l’estate invano.
VITA DI UN ROMANZO ANDREA CATERINI
Saggistica. L’esatto opposto delle velleità sadiche – per il lettore – di Helena Janeczek.Stenio Solinas, tra le rare ‘firme’ del giornalismo italico, non s’atteggia a scrittore e scrive come dio comanda, da dio, la biografia di un personaggio sinistro ed estroso, australe e sfrenato, genio ribelle, come esplicita il titolo del libro dedicato a Wyndham Lewis (Neri Pozza).
Lewis, nato a bordo di una barca, al largo delle coste canadesi – così l’agiografia rabbiosa –, da papà dandy, inconcludente e fedifrago, ha scombussolato la letteratura anglofona del primo Novecento insieme a Ezra Pound, ha fondato riviste (Blast e The Enemy, che gli diede la nomea di grande nemico delle arti occidentali), ha sedotto fanciulle, ha scritto romanzi d’incompresa grandezza (Tarr e Le scimmie di Dio), è stato tra i ritrattisti più formidabili dell’epoca, al cospetto del suo genio si sono inchinati tutti, da Joyce a Thomas S. Eliot e compagnia (Hemingway, al contrario, questione di virilità, lo detestava).
Scrisse, nel 1931, la prima biografia di Hitler, si accampò sempre dalla parte sbagliata, fiero di farlo. “C’è un unico nemico: noi stessi”, diceva Lewis. Solinas – che ha tirato fuori dall’oblio un artista di cui in Italia si sa nulla o quasi – in coerente sintonia, dice, “i perdenti, gli eccentrici, gli sconfitti loro malgrado, i falliti nonostante tutto, fanno parte del mio orizzonte mentale, sono anch’io quella cosa lì, eternamente un outsider, più attratto dal mantenere fede a se stesso che dall’aver successo fingendomi qualcun altro. Sotto questo profilo Lewis è affascinante perché titanicamente votato all’autodistruzione, ma senza mai ammetterlo, come pensando ad altro, illudendosi che alla fine la ragione sarà dalla sua”. Impagabile, inappagato.
Poesia. La poesia è un continente da scoprire: un verso levigato a puntino è in grado di perforarvi il cranio. In era agostana, vale la pena leggere Wallace Stevens, per dire, un poeta davvero infinito (nel 2015 Massimo Bacigalupo ha curato il ‘Meridiano’ Mondadori di Tutte le poesie). Nell’ambito della poesia italiana contemporanea, il poeta più alto è e resta Alessandro Ceni, nessuno lo conosce perché la sua bravura è pari al suo pudore.
Esordio con Guanda nel 1980 (I fiumi d’acqua viva), sotto l’egida di Piero Bigongiari e Dylan Thomas, il libro risolutivo è Mattoni per l’altare del fuoco (Jaca Book, 2002). Il talento indubitabile, verticale di Ceni, che è anche traduttore eccellente – per Feltrinelli ha dato stile a Melville e Whitman, a Conrad e Wilde, per Einaudi a Robert Louis Stevenson e Lewis Carroll – resta confinato, per scelta d’autore, in placche pubblicate per piccoli editori di pregio, memorabili (l’ultimo fascicolo, Combattimento ininterrotto è pubblicato da Effigie nel 2015): l’antologia che ne raduna l’opera, Parlare chiuso. Tuttelepoesie è pubblica nel 2012 per l’editore Puntoacapo.
Basta una poesia di Ceni a far capitolare il giorno in albatros: “A chi lo guardi dalla foce/ l’intrico delle coste ghiacciate/ è come un ragazzo che annega;/e la schiena dell’uccella/ che cede come una carena sotto la mano innocente/ forse è perché si andava noi per primi;/ forse perché si era eroi,/ extraterrestri, angeli ed anime dei morti”.
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