ludovico einaudi

“SONO SNOB. IL COMPLIMENTO PIU’ BELLO L’HO RICEVUTO DA UNA SIGNORA DELLE PULIZIE” - IL PIANISTA E COMPOSITORE LUDOVICO EINAUDI, IL QUARTO ARTISTA ITALIANO PIÙ ASCOLTATO AL MONDO SU SPOTIFY SI CONFESSA A ALDO CAZZULLO E RENATO FRANCO SUL "CORRIERE" - DAL NONNO LUIGI PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA A PAPÀ GIULIO FONDATORE DELLA CASA EDITRICE: “ERA CINICO E COMPLETAMENTE SORDO VERSO LA MUSICA” - "CALVINO SOFFRIVA NEL VEDERE LE CANDELE CHE SI CONSUMAVANO, CELENTANO MI DISSE CHE “ERO DOLCE COME UN FICO” – "EMINEM? UNA COLLABORAZIONE CON LUI LA FAREI SUBITO. SANREMO? OGNI TANTO CERCANO DI INVITARMI MA NON CI VADO” - VIDEO

 

 

Aldo Cazzullo e Renato Franco per il Corriere della Sera - Estratti

 

 

 

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«Erano gli anni 90, avevo scritto la musica per un balletto su Salgari, durante le prove sono uscito dietro i palchi e ho incrociato una signora delle pulizie che mi ha fermato: Bellissima questa musica, mi sono commossa, mi è piaciuta tantissimo. Lo ricordo come fosse oggi. Quelle parole valevano più delle parole di tutti i sovrintendenti di tutti i teatri dove ho suonato».

 

Ludovico Einaudi è il quarto artista italiano più ascoltato al mondo su Spotify (in testa ci sono i Maneskin). Un successo che si spiega con la sua idea di musica pittorica, immaginifica, che ha unito la profondità del pop con l’interiorità della classica. Il suo cognome ha il peso della nostra storia: il nonno Luigi presidente della Repubblica, il padre Giulio fondatore della casa editrice.

 

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Che ricordo ha di suo nonno?

«Non ne ho una memoria molto viva, ho il ricordo di essermi seduto sulle sue ginocchia e forse quello di una passeggiata nella vigna, anche con mia nonna, a raccogliere le pere».

Nonna Ida com’era?

«Alta, elegante, sempre con il collier di perle, molto solare, con occhi ridenti che facevano un bel contrasto con la natura langarola, dall’anima chiusa, dell’altro ramo della famiglia. Aveva uno sguardo che ha trasmesso ai suoi figli e rivedevo in mio padre».

Suo padre era fascinoso e duro, fece piangere Calvino e Pavese.

«Era cinico e ironico, si divertiva a punzecchiare e far soffrire gli altri».

 

Anche lei?

«Non ha mai capito esattamente cosa stessi facendo, cosa studiavo, era completamente sordo verso la musica. Una volta andai a trovarlo a Roma e fui sorpreso nel vedere un piccolo stereo: nel lettore c’era un album di John Cage con quel suo famoso brano, un silenzio lungo 4 minuti e 33 secondi.  Mi sono detto: ecco, ora capisco».

 

 

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E Calvino?

«Abitava nel nostro stesso palazzo a Torino, ne ho un ricordo fantastico. Mai trombone, timido, soffriva nel vedere le candele che si consumavano, da buon ligure attento al risparmio lo sottolineava sempre con il sorriso, con quel suo sguardo da gattone. Aveva un’attenzione particolare per me: una sera vide alcune foto che avevo fatto e le mise sul pavimento per premiare la migliore. Fu una cura che mi diede fiducia, quella che da mio padre non arrivava».

giulio einaudi

Cosa le ha insegnato suo padre?

«Durante gli studi mi dava lo stipendio minimo che riceveva un suo dipendente della casa editrice, 230 mila lire al mese, con cui mi dovevo pagare l’affitto e mantenermi. Finiti gli studi mi ha detto di arrangiarmi. È stato bello così. Se avesse continuato a mantenermi forse non mi sarei messo in gioco come invece ho fatto, è stato educativo».

 

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Le sue prime note?

«Ho cominciato con il rock, sono cresciuto negli anni in cui la chitarra era lo strumento principe, a 8 anni suonavo i Beatles».

Luciano Berio è stato il suo maestro al Conservatorio di Milano, poi avete lavorato insieme.

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«Era propositivo, pratico, andava subito al sodo. Amavo la sua apertura rispetto agli altri maestri dell’avanguardia, aveva conosciuto Paul McCartney, gli piaceva il jazz».

Così lei è arrivato alla Scala.

«Ero l’assistente principale di Berio, un giorno mi disse: se mi ammalo mi sostituisci a dirigere l’orchestra. Avevo 23 anni e la sera stessa mi è venuto un febbrone pazzesco».

 

Poi ha rotto con Berio.

«Non volevo seguire un mondo dell’avanguardia che non corrispondeva alle mie necessità espressive: non facevo musica per essere rispettato dentro una società accademica. Ho abbracciato una strada che mi ha chiuso quelle porte, nel giro di un anno il mondo della classica contemporanea ha cominciato a storcere il naso. Con Berio stesso — pur in un rapporto formale buono — non c’era più la sintonia di prima».

L’ha fatto per il pubblico, o per se stesso?

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«Per me. Io non avevo ancora nessun pubblico, ai primi concerti c’erano al massimo cento persone, però sentivo che era importante lavorare su un linguaggio che potesse comunicare con tutti; non mi interessava la bolla chiusa, autoreferenziale, sostenuta anche dalle istituzioni. In quel contesto non mi sentivo io».

La sua è una musica pittorica.

«Attraverso un titolo offro un’immagine, uno spunto, poi ognuno completa il quadro con la propria immaginazione e le proprie esperienze; ognuno si fa il proprio ritratto, si racconta la sua storia».

 

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La politica la segue?

«Con distacco, è un mondo che non mi piace. Osservo, ma a distanza. La mia indipendenza artistica è anche esistenziale, mi permette di non sporcarmi le mani con nessuno».

Giorgia Meloni le piace?

«Mi sembra una donna intelligente, energica. Le persone che circondano il suo governo però non sono persone con cui avrei voglia di passare un pomeriggio».

Trump?

«È un matto, uno che abbaia molto, speriamo che non faccia troppi danni, con i disastri ambientali che stanno accadendo mi sembra allucinante che voglia ritirare l’accordo di Parigi sul clima».

Crede in Dio?

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«Ho una mia spiritualità che manifesto dentro la musica. Per me suonare è un momento di comunione, fatto di energia musicale e spirituale».

Come immagina che sia l’aldilà?

«Penso ci sia un’energia che non scompare del tutto, quando torno a Dogliani sento che c’è una forza che appartiene ai miei avi, la ritrovo nei luoghi in cui ho vissuto».

 

Ad esempio?

«Il bricco che raggiungevo con i miei genitori, un prato che dominava le Alpi che era la meta delle nostre passeggiate, lì abbiamo visto anche un’eclissi. Volevo tenervi un concerto, ma piovve troppo... Prima o poi lo farò. Ho anche scritto una musica, Il sentiero dei fossili, perché in Langa se ne trovano ancora».

 

Si può raccontare una storia con la musica?

«La si può evocare. Costruirla insieme con le esperienze di chi la ascolta. Ognuno ha avuto il suo sentiero dei fossili».

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Lei ha suonato sui ghiacci dell’Artico.

«Dobbiamo preservare quell’ambiente unico. È irresponsabile il modo in cui ci comportiamo verso il pianeta. Quand’ero bambino andavamo al mare a Bocca di Magra, c’erano ancora i cavallucci marini. Sta cambiando tutto».

 

E ha composto un brano per Celentano.

«L’ho conosciuto quando mi ha invitato in tv per eseguire insieme il brano live. Mi vede in corridoio, e mi grida da lontano: Ludovico sei dolce come un fico!. Così, come se mi conoscesse da una vita, mentre era la prima volta che lo incontravo. Sembrava appena sveglio. Era arrivato un quarto d’ora prima della diretta, mentre io ero lì da tre ore con l’ansia. Ho avuto l’impressione di un personaggio assolutamente non costruito, senza filtri».

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Il rap come le sembra?

«Ci sono cose che mi piacciono moltissimo, a partire dai padri del genere: una collaborazione con Eminem la farei subito. La trap invece mi piace un po’ meno».

La classifica italiana è dominata da Geolier, Sfera Ebbasta, Lazza...

«Non mi è capitato di ascoltarli».

Che idea ha del Festival di Sanremo?

«Lo seguivo da ragazzo, ora meno. Ogni tanto cercano di invitarmi ma non ci vado».

Fa lo snob?

Sorride: «Un po’ sì, sono snob. E poi penso che è una bella vetrina se ne hai bisogno per promuoverti. Ma io mi sento già promosso».

 

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