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STEVE JOBS? L’HO RE-INVENTATO IO - PARLA MARCO LANDI, MANAGER ITALIANO ARRIVATO AI VERTICI DI APPLE: “JOBS ERA SNOBBATO DA TUTTI, L'HO RIPORTATO IO IN AZIENDA. IMPOSSIBILE INSTAURARE UN RAPPORTO UMANO. ERA DIFFIDENTE. E NON È STATO IN GRADO DI TROVARE UN SUCCESSORE - FARÒ UNA SILICON VALLEY NELLA MURGIA"

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Tobia De Stefano per “Libero Quotidiano”

 

«Vuol sapere che ricordo ho di Steve Jobs? Parla del genio che ha cambiato per sempre il mondo delle nuove tecnologie o dell' uomo con il quale era impossibile instaurare un rapporto personale…».

 

I ricordi appartengono a Marco Landi, l' unico manager italiano che è arrivato fino ai vertici di Apple e che può vantare un' esperienza non replicabile nel curriculum: aver riportato il fondatore della Mela nella casa madre di Cupertino. Siamo nel 1993. E Landi è a capo della Texas Instruments Europa. Dopo qualche anno trascorso ad Hong Kong gli affidano una nuova sfida tutt' altro che scontata: il rilancio nel Vecchio Continente.

 

È in quel momento che arriva la chiamata di un cacciatore di teste che gli prospetta una fantastica avventura, in un gruppo all' avanguardia: insomma, Apple. Resterebbe in Europa per ribaltare i conti che sprofondano in un inquietante rosso da 300 milioni di dollari. Landi accetta. E in 12 mesi riporta il bilancio della sua area in profitto. Cosa che nel quartier generale di Cupertino non passa inosservata. Lo vogliono negli States, come Coo (chief operating officer), il numero due del gruppo.

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Affascinante, ma all' epoca Jobs non c' era…

«No. Era andato via nell' 85 in malo modo. E non se la passava benissimo. Anzi.

Aveva perso la sua grande sfida, quella di conquistare il mercato dei personal computer. In otto anni ne aveva venduti appena 50 mila con la sua nuova creatura Next».

 

Poi cos' è successo?

«Avevamo bisogno di un sistema operativo e stavamo valutando tre concorrenti. La prima scelta salta per motivi economici - ci avevano chiesto 300 milioni e noi non avevamo intenzione di investire così tanto - la seconda è Nexstep della società di Jobs…».

 

Che quindi era più a buon mercato?

«Nient' affatto. Alla fine paghiamo la società 400 milioni, ma Gil D' Amelio, il Ceo dell' epoca non se la passava bene e, riportando il fondatore in azienda, si giocava la sua grande carta per restare in sella».

 

Fu un errore?

«D' Amelio firmò la sua condanna a morte. Jobs intuì subito che era molto debole e mise i suoi uomini di fiducia nei posti chiave. Fu l' inizio della scalata che lo portò a riprendersi il gruppo».

E lei?

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«Io ero un uomo di D' Amelio e otto mesi dopo mi fecero fuori».

 

Dica la verità, ce l' aveva un po' con Jobs?

«Nient' affatto. In una grande azienda sono cose che capitano. Devo ammettere però che all' epoca non avrei mai pensato che Jobs avrebbe rivoluzionato il mondo dell' information technology. Lui arrivava da un fallimento, Next non aveva praticamente più mercato, e quindi siamo stati noi a "regalargli" una seconda opportunità…».

 

Insomma, se oggi abbiamo iPod, iPhone e iPad lo dobbiamo a lei…

«Ma no... Jobs è stato un visionario. Lui si è reso conto che in quel momento era impossibile confrontarsi con Microsoft sui pc e quindi si è buttato sulla musica e con l' iPod ha cambiato le regole del gioco "uccidendo" la Sony. Poi ha trasformato la telefonia e con l' iPhone ha "ammazzato" Nokia. Quindi è arrivato l' iPad».

 

Un genio.

«Appunto. Ma sa dove si vede l' unicità del personaggio? Dal fatto che dopo la sua morte Apple non ha fatto altro che implementare i prodotti che aveva inventato il suo fondatore. L' iWatch, l' unica novità, è stato un fallimento».

 

E cosa ci dice su Jobs uomo?

«Le dico che con Steve era impossibile instaurare un vero rapporto umano. Era sfuggente, diffidente e costantemente sotto pressione. I dipendenti del gruppo avevano paura di prendere l' ascensore con lui e non conosco un solo dirigente con il quale sia andato a cena. Alla fine non è stato in grado di creare un team, di dare alla sua azienda un successore».

 

Si è mai dato una spiegazione per questi comportamenti?

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«No. E non sono in grado di darla. Ma mi ha sempre colpito il fatto che non abbia riconosciuto subito una figlia nonostante lui sia stato adottato e abbia sofferto molto per questo. Viveva una sorta di sindrome dell' abbandono. E non ha mai voluto incontrare il padre biologico».

 

Dopo la sua uscita da Apple vi siete più incontrati?

«Certo. Alla fine degli anni Novanta io ero nel cda di Telecom International e avevo legato con il presidente dell' epoca, Gian Mario Rossignolo. Guardavamo con attenzione a quello che succedeva in America e all' i-Mac. E lo confrontavamo con i ritardi mostruosi dell' Italia. Così pensammo di proporre alla Apple di acquistare un grosso quantitativo di pc da vendere nelle scuole italiane a un prezzo di favore per incrementare l' alfabetizzazione del Paese».

 

Bell' idea, come finì?

«Finimmo per proporgli di venderci l' intera Apple».

 

In che senso?

«Nel senso che il direttore generale dell' epoca, Francesco De Leo, mi chiese di fissare un incontro con Jobs.

Andammo a Cupertino e Steve fu molto felice di rivedermi, ma ammise di essere in trattativa con un' altra azienda…».

Con chi era in trattativa?

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«Non c' era nulla di ufficiale, ma io penso fosse Oracle».

 

E quanto valeva all' epoca Apple?

«Non avevamo fatto delle valutazioni in profondità, ma era un' azienda ancora in difficoltà, escludo che potesse superare i due miliardi di dollari».

 

Comunque l' affare saltò.

«In Telecom arrivarono "i capitani coraggiosi" (Emilio Gnutti e Roberto Colaninno sponsorizzati da Massimo D' Alema ndr) e il progetto venne definitivamente riposto in un cassetto».

 

Peccato. E lei?

«Da allora le mie prospettive sono cambiate. Ho fatto molta consulenza e sono stato nominato in diversi cda. Dopo anni in cui avevo lavorato all' estero mi è venuta voglia di fare qualcosa in Italia e per l' Italia».

 

Per esempio?

«Volevo esportare dalla Francia il modello di Sophia Antipolis, il parco tecnologico di Antibes nel cuore della Costa Azzurra».

 

Obiettivo?

«Creare un network di start up digitali che facessero da volano a una crescita dell' information technology in tutto il Paese».

 

Dove?

«Inizialmente ho guardato alle mie terre, io sono nato a Chianciano Terme, quindi alla Toscana».

 

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E come è andata?

«A Siena ho trovato molte resistenze. Lì tutto nasce e muore intorno a Mps».

 

Quindi ha cambiato città?

«Diciamo che ho cambiato Regione. In Puglia c' è più terreno fertile. Nella Murgia (tra Matera e Bari, ndr) stanno nascendo decine di piccole imprese digitali che iniziano a fare sistema».

Tipo?

«Lì ho trovato eccellenze nelle stampanti 3D, nel digital marketing, nei software per informatizzare i laboratori di ricerca. Insomma sta nascendo una sorta di Murgia Valley».

 

E lei ha investito in una di queste start up?

«Io ho investito in Digital Box, un' azienda che crea contenuti digitali per smartphone. Sono partiti nel 2103 con sei o sette dipendenti e oggi ne hanno più di sessanta. Ora li sto aiutando ad andare in America».

 

Ma come li ha conosciuti?

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«Semplice, un giorno un mio amico mi mostra uno dei loro contenuti e io ne resto impressionato. Mi faccio dare un contatto con l' ad, Roberto Calculli, e lo invito a cena a casa mia nelle colline vicino a Nizza. A patto che mi porti le orecchiette».

E lui?

«Io scherzavo, ma lui le portò davvero. E anche grazie alla pasta riuscì a convincermi».

 

A fare cosa?

«A investire 200 mila euro per il 5% del gruppo».

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Un affare?

«Con il senno del poi le posso dire di sì, ma mi creda in quel territorio ci sono tantissime start up di talento. C' è un fermento di idee, di risorse umane, di sinergie positive tra imprese che stanno imparando a parlare lo stesso linguaggio, quello delle nuove tecnologie e del futuro».