DAGOREPORT – CHI È STATO A FAR TRAPELARE LA NOTIZIA DELLE DIMISSIONI DI ELISABETTA BELLONI? LE…
Paolo Martini per Sette-Corriere della Sera
Non vi spazientite, ma la prenderemo da molto lontano. Giusto per non finir soffocati subito nelle piccole beghe di casa nostra, nelle polemiche sui punti d'ascolto perduti dai personaggi della cosiddetta "sinistra televisiva", nei ricami sugli incassi mancati dei film di punta della gauche-caviar, negli evviva per la fine di un'egemonia culturale, nelle analisi sull'estinzione della sinistra anche come "mercato".
Tanto sul punto in questione sono tutti d'accordo, persino i guru del bel tempo che fu, da Angelo Guglielmi, il padre nobile di Raitre: "siamo in una fase davvero decrepita e priva di ogni stimolo per lo spettatore, colpa dell'assoluta mancanza di rinnovamento"; a Carlo Freccero, l'ex direttore "situazionista" di Raidue e Rai5: "in un momento di supremazia totale del pensiero di destra, il telespettatore di sinistra ha capito di essere inutile ed è stato mangiato da altre mille novità".
Allora, prendiamola alla lontana, con un esempio internazionale, anche perché serve a comprendere perfettamente il senso della grande trasformazione in atto.
Partiamo, per la precisione, da un venerdì sera di qualche giorno fa a New York e dall'ultima intervista pubblica di Lena Dunham, 28enne icona della nuova Brooklyn cool, stella-rivelazione della tv, con il telefilm della Hbo Girls. Lena Dunham è un po' lo specchio al rovescio della tipologia femminile rampante, perché usa esibire il suo corpo nudo in modo altrettanto aggressivo, ma molto ironico.
Anche quella sera, incalzata da una giornalista snob del settimanale The New Yorker, Lena incanta la platea mescolando le chiacchiere con i temi più seri: tra l'altro, rivela di voler coltivare il suo interesse per il femminismo facendo un film dal romanzo "sto-ri-co me-dio-eva-le per ragazzine", Catherine Called Birdy. "Lo so, non è necessariamente quello che i fans si aspettano da me, ma è quello che mi intriga adesso".
sabina guzzanti a servizio pubblico
Bene, lasciamo l'America e proviamo ad adottare da noi quello che potremmo definire il teorema di Lana, ovvero dell'imprevedibilità come sale del successo mediatico. Chiudete gli occhi e immaginate una Sabina Guzzanti che esca dai panni dell'eroina antiberlusconiana e si presenti al prossimo festival di Venezia con un film su Streghetta mia di Bianca Pitzorno, intervistata pubblicamente, tanto per giocare a parti invertite, che so? da Anselma Dell'Olio.
Va bene, direte voi, adesso è facile sparare sulla Guzzanti: dopo il gruzzolo che ha bruciato nel crack del Madoff dei Parioli, dopo il flop della sua ultima opera La Trattativa, dopo il controverso tweet di solidarietà a Riina e Bagarella…
Ma a prendere sul serio il teorema di Lena ora ci prova, almeno in prima persona, l'agente pressoché unico della sinistra tv Beppe Caschetto: quasi presentendo i pericoli della delicata fase, mentre si notano i segni di cedimento persino del suo miglior pupillo Maurizio Crozza, Caschetto si è messo a nudo in un'intervista sulla sua vita di bravo ragazzo coi piedi per terra, che la domenica impasta il pane con il padre ex carabiniere, e ha scelto come confidente Salvatore Merlo per il Foglio.
la trattativa di sabina guzzanti 5
E chissà se non doveva far valere la regola dello spiazzamento anche per il "suo" personaggio spacca-Auditel Luciana Littizzetto: di recente Giampaolo Pansa s'è divertito a stendere, da grande ex, qualche pennellata sulla sinistra vista come un cimitero, e nel quadretto ha messo anche il declino di Che Tempo Che Fa, di Fabio Fazio e della "signora Littizzetto, la pin up del programma, che ormai" - testuale e ben poco galante - "è una vecchietta con le tette secche. Che per di più è reduce da uno sguaiato Festival di Sanremo". Sic!
Il fatto è che anche la nostra "Lucianina", come la chiama Fazio, aldilà dell'età e dei Sanremo, e della gaffe dei miseri 100 euro per la Sla dopo la doccia gelata, invece di rigenerarsi dall'eterno ritorno delle stesse gags con qualche progetto davvero spiazzante, ormai fa la giurata di un classico talent-show o l'ospite di giro da Maria De Filippi.
E lasciamo pure stare il caso di "Fab-terman", ovvero la storia di come Fabio Fazio, dopo aver imboccato così bene la strada per diventare il David Letterman all'italiana, si sia lasciato invischiare in una certa quale ego-dilatazione. Le scenografie-monstre e l'onnipresenza in scena del conduttore pesano più di ogni reiterata dichiarazione d'understatement, e poi le scelte di fondo parlano chiaro: a forza d'allargarsi sui palinsesti della terza rete, Fazio nel 2012 si è spostato pure su La 7 con Saviano e poi ha fatto un festival della canzone via l'altro su Raiuno.
Risultato: oggi, scampato persino dalle polemiche sui maxi-compensi (si parla di 5 milioni e 400 mila euro per 3 anni in Rai) così poco consoni ai tempi tanto grami, Fazio resiste come un diesel e dopo qualche settimana ha il motore caldo anche per contenere l'attacco de La 7, che schiera in un programma fotocopia Giovanni Floris, ma per poter di nuovo gridare al successo si è fatto stritolare da Bono.
Il leader degli U2, una domenica sera in diretta, ha certificato "urbi et orbi" quello che i critici più feroci hanno sempre sostenuto: "Fabio, bisogna chiamarti Mister Valium!". Scena proverbiale della nemesi di una certa televisione del rock-e-lento.
Di un varietà di sinistra che aveva eletto a canovaccio rituale quei lunghi elenchi ormai fuori tempo massimo, anche solo proposito di musica e di costume, dato che nel frattempo la rivoluzione grunge degli anni Novanta aveva spazzato via il manicheismo ideologico ed era diventata ormai lezione corrente, per non dire delle svolte successive, delle atmosfere più che dilatate delle migliori band post-rock…
Già, il post e i post, quelli col trattino e quelli per i brevi commenti sui social-media: mentre tutto il mondo intorno diventava "post", dopo che erano crollati i muri reali e pure quelli virtuali, una certa cultura di sinistra in Italia è come se fosse rimasta attestata al mondo di prima, forte del successo commerciale e con l'alibi del Nemico sempre vivo.
"Attenzione a non confondere i problemi", s'infervora come al solito un pasionario 'apocalittico e integrato' della tv come Carlo Freccero. "E' evidente che siamo di fronte a un cambiamento epocale: la sinistra era rimasta maggioranza sul mercato culturale per decenni e sicuramente su questo piano la trasformazione è in atto. Ma non è morta, casomai sta rinascendo. E rinnova la propria fortuna nella radicalizzazione del discorso di sinistra, come insegna per esempio il successo di Piketty".
Per Freccero, dunque, la crisi riguarda, per così dire, soprattutto i marchi più tradizionali: il mercato culturale della sinistra ha bisogno di rinnovamento e di ripartire dal vigore classista originale, come ha fatto appunto l'economista Thomas Piketty con il suo Capitale del XXI Secolo, un tomo di 700 pagine che è in testa alle classifiche dei best-seller.
Già, il vento fa il suo giro anche in libreria. Prendete anche solo la classifica ufficiale delle Feltrinelli, una settimana di fine ottobre del 2014, e ne avrete conferma: a parte il caso Piketty, che se la vede con Ken Follett e i nuovi delitti del BarLume su in cima, bisogna arrivare verso la ventesima posizione per trovare dei saggi d'attualità, ma, a sorpresa, accanto al titolo di casa Rete Padrona di Federico Rampini de La Repubblica, ci s'imbatte nientemeno che nei nuovi saggi di Antonio Socci e di Giampaolo Pansa, ovvero due giornalisti che figurano di rigore nell'odiografia di sinistra, e anche in questo caso fanno di tutto per ritrovarcisi, il primo con un pamphlet contro papa Francesco e il secondo addirittura con una "controstoria del fascismo" intitolata Eia Eia Alalà. Decisamente sembrano finiti i tempi delle inchieste hard, genere Chiare Lettere editore, per vedere impilate alla cassa tante copie.
GIAMPAOLO PANSA SECONDO ETTORE VIOLA
Un caso a parte è quello di Marco Travaglio, che non ha mai voluto pervicacemente farsi ingabbiare politicamente, e addirittura oggi è il primo a voler uscire dalla scena della sinistra televisiva all'insegna di un inequivocabile: "Qui sono tutti matti!", come ha fatto giovedì 16 ottobre in diretta a Servizio Pubblico.
E, nella puntuale esplosione di commenti del dopo, Travaglio ha voluto mettere un sigillo tombale sulla "fine del giornalismo nei talk televisivi", degno dello scrittore Mario Vargas Llosa, l'intellettuale punto di riferimento dei liberali a oltranza che indica da anni, come pericolo per la democrazia, "questa informazione trasformata in entertainment che fa saltare ogni categoria di verità o falsità e alimenta solo confusione".
Ecco, anche lo scontro interno con Travaglio alla fine non gioverà affatto a Michele Santoro, che pure è uno dei pochi che aveva presentito la disfatta. Chissà perché Santoro è voluto tornare in onda, ancora un pezzo di stagione, nonostante avesse già passato saggiamente il testimone a un tipo come Giulia Innocenzi: la ragazza ha tutte le fortune, è spigliata, carina, è nata nel 1984, decisamente post-ideologica e per giunta fidanzata con un personaggio del momento come Pif, l'ex Iena che racconta il mondo attraverso le sue grottesche esperienze dirette ne Il Testimone su Mtv e ha dimostrato che si può ancora rinnovare l'informazione-intrattenimento.
Ma torniamo a Santoro: da tele-tribuno doc, ha fatto subito appello al pubblico, ma stavolta la sua chiamata era per una causa difficile, non per un editto bulgaro. Non poteva bastare un editoriale a salvare Servizio Pubblico dal declino di ascolti e d'immagine: e questo forse anche perché Santoro ha indicato le cause in chiave più tecnico-televisivi, che di realtà. Ha detto: "ci sono troppi talk, il pubblico ne ha la nausea", ma forse non ha voluto ammettere che non è solo una questione di genere televisivo e di linea editoriale de La 7, bensì siamo in presenza di un mutamento d'epoca, nei media e nella società, che non risparmia nessuno.
Sì, è vero, anche il duello al martedì tra Giovanni Floris e Massimo Giannini ormai fatica a coinvolgere poco più di due milioni di spettatori in tutto. E tutti i cosiddetti spettacoli di parola sono in affanno. Ma ci sarà un motivo se sono proprio le "reti rosse" a essersi di più smagliate: Raitre colleziona un flop via l'altro; la rete fotocopia de La7 è decisamente in frenata, nonostante la campagna acquisti; RaiNews non si scolla dagli zerovirgola; e Laeffe dell'editore Feltrinelli cerca addirittura già di smarcarsi dal consueto catalogo di volti targati, ammainando la bandiera ideologica, per puntare su uno "story-teller" come Matteo Caccia, cui è stato affidato il programma di casa Dalla A a laeffe.
Caccia è un affermato personaggio radiofonico, specialista appunto (story-teller) nel racconto di storie, che mette al centro della scena le vite delle persone qualunque e crede che la vocazione dei media tradizionali sia oggi semplicemente quella di creare "un ambiente piacevole". Altro che fischiettare Bella Ciao in apertura di programma, o dedicare "alla difesa della bellezza" un festival di Sanremo!
"Il talk politico è finito", prova a ragionare ancora Carlo Freccero, "anche perché casomai il pensiero critico forte e diverso, davvero alternativo, si manifesta nel racconto e nella letteratura, nello story-telling e nelle serie televisive".
D'altro canto è come se fosse venuto a maturazione adesso sul mercato dei consumi culturali, un po' in ritardo rispetto alla scena politica vera e propria, un fenomeno di rigetto nei confronti di quel "complesso di superiorità etica" che Luca Ricolfi considerava già da anni la malattia più grave della sinistra.
Ricordate il titolo del 2005 ‘’Perché siamo antipatici?’’ Oggi, da quell'analisi del sociologo torinese che ancora non prendeva di mira direttamente la "sinistra televisiva", ma soprattutto quella dei leader politici e degli editorialisti, siamo passati a una ricognizione giornalistica come Le catene della sinistra di Claudio Cerasa, dove i capitoli sui peccati della tv sono centrali.
"Per fortuna", spiega Angelo Guglielmi, che pure crede che ci sia una crisi culturale generale, e non specifica della "sinistra televisiva", "siamo ormai alla vigilia della riforma della Rai ed è un bene, forse, che questo accada in un momento di tale calo di credibilità e di proposte. Almeno possiamo sperare che la riforma segni un ribaltamento".
In fondo, sarebbe facile liquidare la questione con il peso del doppio cambiamento che è avvenuto sulla scena del potere italiano, dopo l'offuscarsi della leadership di Silvio Berlusconi, cioè la caduta dell'Avversario, e l'irruzione del ciclone Renzi.
Del resto, con la "rottamazione" di una classe dirigente, Matteo Renzi ha voluto investire direttamente i grandi protagonisti della sinistra televisiva, da Floris, accompagnato fuori dalla porta della Rai dopo uno scontro in diretta, a Santoro contro-programmato a ruota di Corrado Formigli (nella stessa settimana, infatti, Matteo Renzi ha scelto i talk-show dei giornalisti di centrodestra Paolo Del Debbio e Nicola Porro, portandoli a sorpassare i diretti concorrenti).
Ma c'è qualcosa di più profondo che sta cambiando e forse non da oggi, qualcosa che spiega anche perché sia possibile parlare di una vera e propria fase storica nuova. "In effetti, l'impoverimento culturale generale è andato maturando ormai da un trentennio", ragiona Angelo Guglielmi: "e ora siamo al completo esaurimento anche degli ultimi palpiti degli anni Ottanta".
Sicuramente uno degli errori più gravi di una certa sinistra culturale è di non aver saputo adeguatamente rinnovare il patto con le generazioni, soprattutto da quando si sono affacciati all'età adulta "i nativi digitali", con un universo di riferimento mediatico tutto nuovo, dato che sono venuti al mondo dopo l'avvento d'Internet.
A paradossale certificazione della rottura con il pubblico giovanile si può citare addirittura uno dei più grandi successi recenti, il volume Gli sdraiati di Michele Serra, fortunato atto d'accusa contro la generazione degli indivanados.
In poche settimane, con tanto di letture pubbliche di Claudio Bisio, Gli sdraiati è diventato una sorta di "livre de chevet" per tanti che furono protagonisti della rivolta contro i padri, e oggi si trovano alle prese con i figli che vogliono restare sul divano di casa.
SELFIE DI FABIO FAZIO CHE CORRE
Di certo, comunque, il pubblico giovanile che ha grande dimestichezza con internet, per quanto indignados o "sdraiato" che sia, è stato decisivo nel dettare, tra l'altro, lo spostamento di asse verso le serie televisive, che occupano spazi sempre più ampi, anche temporali, nel consumo culturale, e hanno saldamente preso il centro del discorso del giorno dopo.
Una volta si poteva parlare giusto di un'avanguardia, degna della doppia definizione gergale che si era meritata, i "fansub" (cioè la tribù degli appassionati della sottotitolazione immediata dei telefilm americani) protagonisti del "binge-watching" (ovvero della visione ad abbuffata per ore e ore).
Ma oggi sulle serie americane si raccoglie un'audience significativa, che si è consolidata anche perché viene raggiunta con diverse modalità. E, a guardarla nel dettaglio, per fasce d'età e composizione socio-culturale, in gran parte è un'audience esattamente sovrapponibile a quella perduta dalla "tv intelligente".
"Del resto, a proposito di pensiero critico e di visione alternativa", s'entusiasma Freccero, "che cosa c'è di più profondo del pessimismo radicale di True Detective, un telefilm che distrugge addirittura la religione?!"
Comunque si giudichino le ultime offerte americane, difficile che uno spettatore torni indietro, dopo che si abitua allo standard di linguaggio e alla disinvoltura sui contenuti delle serie internazionali, che possono andare dal livello di un grande romanzo borghese all'intrattenimento coi freaks, e pullulano di anti-eroi come i videogiochi.
Dati alla mano, per concludere restando un attimo tra le categorie universali, verrebbe da dire che la sinistra televisiva sia attestata ormai sugli ultimi "intignados".
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