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Guido Andruetto per “la Repubblica”
Dove tutto è niente, solo musica, Paolo Conte ha creato una trama arabescata di musiche e parole che sembrano intarsiate nel legno come l’opera di uno scultore. Nel paesaggio immobile della campagna piemontese, tra i filari di vigneti e le dolcezze degli amaretti di Mombaruzzo, è nato Snob, il nuovo album di inediti dell’avvocato-cantautore che ha scelto una vecchia cantina nell’alto Monferrato per presentarlo.
Quindici canzoni che commuovono per la loro rara eleganza e per un candore fuori dal tempo che è un faro nella nebbia. «La musica mi ha fatto anche soffrire — racconta Conte fra le botti di Barbera della tenuta Braida — ma l’attività di composizione mi ha sempre procurato delle sensazioni astratte che mi fanno stare bene. È il momento sommo, è un lavoro pieno, in sé, di felicità. Quando si scrive musica si sta in alto, si sogna. Le parole ti impongono un peso, una maggiore precisione».
A quattro anni dal suo ultimo disco, Nelson , il cantante astigiano torna alle radici, alla terra di argilla e sabbia dove quarant’anni fa, a inizio carriera, aveva piantato un seme che ora è diventato un grande faggio. Robusto e incrollabile. L’odore della provincia, intorno, è inconfondibile.
«Non mi sono mai sentito il cantore della provincia — aggiunge il cantante, stretto in un maglione di lana blu che fa risaltare le sfumature invernali dei suoi capelli — non è una dimensione che rivendico con la mia musica, ma piuttosto continuo a cercare insegnamenti nella provincia. Sono un solitario, preferisco abitare con mia moglie in campagna, lontano dalla confusione, dalla mondanità. Se devo essere orso è meglio esserlo in campagna che in città».
Eppure in Snob, che esce proprio oggi, si trovano tracce che portano lontano. La prima è Si sposa l’Africa, il brano con cui si apre il disco, una sinfonia di atmosfere e di inserti musicali di diversa materia: «È nata dalla suggestione di farne un cartone animato che alla fine non ho realizzato. Ma di certo ho seguito il richiamo dell’Africa antica, che ho sempre amato» dice Conte, alludendo a quel pezzo d’Africa in giardino, fra l’oleandro e il baobab, che ha reso così reale in Azzurro.
«Sono attaccato alla voglia dell’altrove tipica dei novecentisti. Raccontano storie quotidiane che sono semplici in sé ma proiettate in un mondo altro, colorato. Io la chiamo la tecnica del pudore. Mi viene sempre fuori quando scrivo». Si sente snob? «Non direi, mi sento più un dandy, che è uno più puro. Lo snob pur essendo una persona non ordinaria come l’intellettuale o il dandy, è un raffinato un po’ superficiale».
La delicata sensibilità di Conte, così vistosa, emerge anche in Donna dal profumo di caffè , viaggio onirico dentro una storia d’amore banale che sulle note del suo pianoforte diventa unica, speciale, straziante. E anche in Tropical, che è un inno di gioia a tempo di swing. In Maracas canta pure in genovese, Conte, ed è un altro bacio fatato alla città. «Genova è lì, con il suo dolore di questi giorni — dice l’autore di Genova per noi — l’alluvione è una ferita. Ci ho pensato in queste ore, ma siamo un paese che ormai è abbonato alle tragedie».
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