DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Marco Giusti per Dagospia
Bello, serio, commovente. Cosa fare se tuo padre, veterano della guerra in Iraq, con problemi post-traumatici pesanti, decide di vivere nei boschi dell’Oregon come l’orso Yoghi e tu sei poco più di una ragazzina? Per chi conosce già il cinema duro, concentratissimo di Debra Granik, questo perfetto Senza lasciare traccia (Leave No Trace), tratto dal romanzo di Peter Rock “My Abandonment”, 100% di gradimenti da parte di tutti i critici americani su Rotten Tomatoes, sarà solo la conferma del talento di questa regista americana di gran classe e di grande ispirazione artistica.
Girato come i precedenti Down to the Bone e Winter’s Bone, che lanciarono rispettivamente Vera Farmiga e Jennifer Lawrence, con una tecnica alla Dardenne, ma meno ossessiva, cioè seguendo una giovane protagonista, in questo caso la Tom della inedita e bravissima Thomasine McKenzie, alle prese con una storia ultrarealistica di emarginazione e di altra America, il film, con pochissimi dialoghi e spiegazioni, ha il preciso scopo di aprirci gli occhi su una storia, su mondi e modi di vivere che possono sembrarci lontanissimi, ma che nascono come risultati abnormi della stagione delle guerre e dei metodi criminale di combattere le depressioni e le malattie dei veterani con farmaci killer.
Willie, un perfetto Ben Foster, vedovo e con una figlia teenager deliziosa, appunto la Tom di Thomasine McKenzie, vive con lei nei boschi vicino Portland, in Oregon, per una precisa scelta. E’ il suo “problema”.
Non potrebbe fare altrimenti. Forse non è il problema della figlia, che lui ha cresciuto da solo, insegnandole a leggere e a scrivere, oltre che a poter sopravvivere nel wilderness. Sappiamo da subito che Willie, da ex militare come il vecchio Rambo, non si adatterà a nulla che la società civile gli offre in cambio della vita nei boschi per il suo impegno in guerra. Né una casetta con il lavoro in una fattoria, né una piccola comunità di sbandati in un altro bosco dello stato di Washngton. Vivacchia vendendo i medicinali, cioè le anfetamine, che gli sono prescritti e regalati dallo Stato, a altri veterani.
Quando viene scoperto, Tom cerca di convincerli a adattarsi, ma non sarà proprio possibile. Così decide di ripartire portandosi dietro la ragazza. Willie è un hobo, un vagabondo come quelli cantati da Woody Guthrie, ma l’origine del suo vagabondaggio, anche se solo accennata dalla regista, non è né la povertà né la romantica ricerca del viaggio, quanto la risposta alla follia della guerra e ai metodi criminali della società americana di ristabilire una normalità.
La Granik costruisce tutto il suo film sul rapporto d’amore tra Willie e Tom, che diventa una specie di ragazzo selvaggio truffautiano, ma decisamente più educato e civile. Se lì era il dottore a salvare il ragazzo, qui è Tom che cerca di curare e di salvare come può il padre. Molto bello. In sala dall’8 novembre.
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