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Quirino Conti per Dagospia
Numerose e diverse sono state le forme di nostalgia che di volta in volta, nello scorrere del Tempo e delle Modernità , hanno segnato di sé il radioso percorso degli Stili. Da quelle ricorrenti, lacrimose e strazianti per la perduta magnificenza delle Classicità (come in Piranesi, Sablet, Füssli, Soane, Ledoux, Boullée e molti altri), a quelle delle incontinenti, sfrenate Merveilleuses agli sgoccioli del Settecento, fino alle traballanti vittime del New look parigino (1947) e ai contemporanei eclettismi neoclassici di Gio Ponti; e così da allora, con infinite varianti, tante da empirne il mondo.
Nostalgie per non vedere. Spesso, un presente che appare intollerabile o impraticabile. Ma anche nostalgie per immaginare, teorizzare e costruire un futuro altrimenti impensabile. E totalmente utopico. Come anche quel certo post-modern - dato già per defunto - che, a furia di rimestare nelle discariche degli Stili e degli avanzi formali così da montarli e accroccarli in qualche modo (ma non lo faceva anche Valadier?), ha finito - confondendo epoche e forme - per consumarsi le dita.
E c'è persino chi afferma che non esiste modernità che nel suo intimo non nasconda un atto di nostalgia travestito. Come anche chi interpreta ogni slancio verso un nuovo paradigma estetico come energia rubata alla combustione di ciò che eravamo: di volta in volta, sempre ancora colmi di infinite nostalgie.
Detto questo, quale immane disfatta deve vivere questo Tempo - oltre a quella più evidente - se a Milano, in questi giorni, nel corso delle presentazioni per la prossima primavera-estate, un simile sentimento ha preso forme di una chiarezza e di una grazia mai prima sperimentate e quasi struggenti?
E fino alla citazione più dettagliata e completa di un tempo e di un luogo - visti con il cuore e la sensibilità - percepiti quale vera età dell'Oro. E passi per Marc Jacobs, che confondendo nostalgia con altro, dalle recenti pedane newyorkesi era già così vistosamente nostalgico di Prada - della Prada di appena sei mesi prima - da mettersi letteralmente lui stesso nei suoi panni, così da cospargerne, citazione su citazione, la collezione intera; quasi da confondersi (forse anche per questo l'occhiuta Suzy Menkes additava Prada come il vero nutrimento della Moda contemporanea?). Ma a Milano, invece, è stato davvero tutta un'altra storia e un sincero rifiorire di nostalgie e di rimpianti: nostalgia di nostalgie di nostalgie.
E se c'è stato chi, voltandosi all'indietro un po' troppo, ha finito poi per smarrirsi fino ad arrivare a uno sgangherato déco e oltre (Gucci), altri invece, con maggior saggezza, tornandosene a quando, poveri ma belli, si era tutti un po' più poeti e orgogliosissimi di quello straordinario miracolo che era il miracolo italiano: come ad esempio da D&G, radioso, festoso, colorato e in Lambretta, o da Prada, in spider scoperta e piccolo soprabito scolpito, o da Fendi, appiedati e in cotone immacolato, a passeggiare al tramonto su un lungomare.
E tutti, proprio tutti, come a dire: "No, noi non vogliamo esserci in questo Tempo e in questi giorni!". Piuttosto, con il cuore, e magari un po' olograficamente forse, a scorrazzare lungo la Costiera amalfitana: come nelle belle cronache di Arbasino, tra Gore Vidal e Truman Capote, Bernstein, Nureiev e Twombly. In forme finalmente decenti e colme di speranza.
Ecco, ora da Milano la Moda dichiara che tutto è sogno. Ma non sulle sue pedane, piuttosto in ciò che le si muove attorno. Un sogno orribile, tremendo, spaventoso: nel più cupo sonno della ragione. Cosicché, su quella striscia di luce che è appunto una pedana, non è più l'Utopia a camminare in modo che la realtà circostante la osservi un po' scettica, ma tutto ciò che vorremmo e dovremmo essere realmente. Lasciando il resto al suo buio.
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