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L INVENZIONE TEDESCA DELL OMOSESSUALITA
Tommaso Labranca per “Libero Quotidiano”
Se il dibattito sociale italiano più che modernizzarsi si limita ad anglicizzarsi a furia di rainbow family, stepchild adoption e family day significa che è giunto il momento di fare cassa con libri che parlino di omosessualità. Negli anni '80 il mensile Babilonia, che si definiva «rivista di cultura gay» e tale rimase fino a quando non sostituì la cultura con i culturisti, cercava di raccogliere pubblicità puntando sul fatto che i gay erano un target con più soldi a disposizione degli etero tengo-famiglia.
La cosa è ancora vera oggi, almeno fino a quando la libertà di adozione non costringerà anche gli omogenitori a spendere tutto in gadget di Masha e Orso. E allora addio soldi spesi per acquistare i tanti libri di tematica gay che, sfruttando la cronaca, si stanno accumulando nelle librerie.
Tra tutti, il più interessante è il saggio Gay Berlin - L' invenzione tedesca dell' omosessualità di Robert Beachy (Bompiani, pp. 492, euro 25). Un lavoro molto documentato che dimostra come l' ambito intellettuale germanofono sin dai primi dell' Ottocento facesse impallidire la San Francisco degli anni '70. In quella prima lontana fase gli scrittori tedeschi insistevano sull' amicizia virile di cui Beachy trova testimonianze in praticamente tutti gli autori.
Il caso forse più noto a tutti è quello del Werther di Goethe che nelle lettere all' invisibile Wilhelm ha toni che sfociano nella bromance, crasi tra brother e romance molto usata oggi a indicare un rapporto d' amicizia maschile che sfocia quasi in una fratellanza amorosa. Mascolinismo, dicevano i tedeschi per non ammettere l' omosessualità dei loro poeti. E anche di quelli stranieri, come Walt Whitman, un «mascolinista», «che amò le donne, ma che realizzò la sua massima espressione spirituale nell' amicizia maschile».
Più avanti furono sempre i germanofoni a scrivere di attrazioni gay seppellendole sotto tonnellate di noiose giustificazioni estetiche, basti pensare a Thomas Mann, a sua volta vittima di un'autorepressione che sfoga nella collosità di Morte a Venezia o nei tormenti adolescenziali di Tonio Kröger.
Ma è soprattutto nella Berlino della Repubblica di Weimar che si elimina ogni censura. In quegli anni confusi eppure pieni di speranza per il futuro di una Germania su cui già si proiettavano le future ombre naziste, fu aperto un noto Istituto di Sessuologia, in cui si fornivano consulenze psicologiche e mediche non solo a etero e omosessuali, ma anche ai travestiti e ai primi transessuali. Ad allora infatti risalgono le prime operazioni per il cambio del sesso.
Al di fuori di quella struttura ferveva una vita gay che riuscì ad attirare persino Christopher Isherwood, scrittore britannico che lasciò la bigotta Inghilterra per frequentare un mondo gay nascosto dietro pesanti tende di cuoio che poi gli ispirerà i racconti di Addio a Berlino. Da uno di quegli scritti fu tratto anche il film Cabaret di Bob Fosse. Che contiene la scena in cui una signorina in lamé entra decisa nella toilette maschile scioccando l' ingenuo inglese Michael York, che finirà a sua volta nel letto di un nobile bisessuale, mentre fuori un ragazzino della Hitler-Jugend cantava che il futuro gli apparteneva...
OMOSESSUALITA NELLA GERMANIA DI WEIMAR OMOSESSUALITA NELLA GERMANIA DI WEIMAR OMOSESSUALITA NELLA GERMANIA DI WEIMAR OMOSESSUALITA NELLA GERMANIA DI WEIMAROMOSESSUALITA NELLA GERMANIA DI WEIMAR OMOSESSUALITA NELLA GERMANIA DI WEIMAR
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