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Federico Cella per il "Corriere della Sera"
Dai detective Crockett e Tubbs a Carrie Mathison e Nicholas Brody il passo è lungo. Esattamente 27 anni, quanti hanno visto Dan Attias lavorare dietro le telecamere per girare oltre 200 episodi di serie tv americane. Da Miami Vice a Homeland, serie vincitrice di sei Emmy Awards. Un trentennio a cavallo di quello che è «il fenomeno televisivo e culturale più eccitante dei nostri anni».
Almeno per quanto riguarda la platea occidentale. Dove per anni, generazioni delle più diverse si sono cibate di Beverly Hills, Buffy, i Soprano, Lost, Dr. House, Heroes. Daniel Attias, classe '51 - che sarà a Torino dal 16 al 19 ottobre, ospite della View Conference -, era sempre lì, cambiando storie e linguaggi per narrarle. «Storie che negli anni sono diventate esperienze condivise da milioni di persone di nazionalità , cultura ed età differenti: le serie tv made in Usa sono ormai un terreno comune di discussione», racconta il regista americano. Come i romanzi di appendice di fine Ottocento, con la dovuta amplificazione legata al mezzo.
«La televisione, a differenza del cinema, offre una tela molto più ampia su cui dipingere: la possibilità di serializzare le storie permette un racconto più vasto e un'analisi molto più approfondita dei personaggi». Come in un racconto di Dickens, appunto. «Il paragone è stato utilizzato per The Wire: ogni singolo episodio racconta un aspetto della società , messi assieme propongono un affresco del mondo dove viviamo».
Il poliziesco di Hbo è una delle due serie su cui ha lavorato che Attias indica come sue preferite. L'altra è I Soprano, una «pietra miliare che ha mostrato in anticipo come sarebbe cambiata la tv. Una rottura totale con il modello utilizzato dagli show fino ad allora, politicamente corretti, con concetti semplici e valori puritani. I Soprano erano scandalosamente deliziosi».
La serie iniziata nel 1999 è stata parte della «rivoluzione» compiuta dalle tv via cavo a pagamento. «La platea e i soldi si sono spostati verso questi "premium network"», spiega il regista 61enne. «Il risultato è stato l'azzeramento della tv tradizionale e lo svuotamento delle sale cinematografiche. Se Hollywood ha perso qualità e quantità , lo ha fatto a vantaggio - e a causa - delle serie tv».
E così i budget sono saliti vertiginosamente: mentre negli anni Novanta un'ora di televisione costava meno di due milioni di dollari, ora parliamo di una media di 5-6. Con alcune incredibili eccezioni. «Il pilota di Lost pare sia costato 11 milioni, quello di Boardwalk Empire (L'Impero del crimine) addirittura 47», è divertito, Attias. «I soldi ovviamente non garantiscono il successo. La formula vincente passa ora dal rompere gli schemi: è finito il periodo in cui si doveva essere accondiscendenti con i gusti della maggioranza degli spettatori».
Il discorso cade allora su due fenomeni degli ultimi anni. Attias non accetta provocazioni da fan: «Lost è finito nel modo migliore possibile». Ride: «D'altronde non avrei saputo come fare diversamente: c'è stata una certa imprudenza nell'aggiungere misteri su misteri alla trama, e alla fine molti sono dovuti rimanere tali. E non solo per gli spettatori».
D'altronde spiegare tutto avrebbe tolto appeal alla serie Abc. Un fascino diverso da quello del Dr. House: «Qui gli ingredienti sono tre: una scrittura brillante, la grande recitazione di Hugh Laurie e un personaggio eternamente arrabbiato ma dalle magiche capacità di ragionamento». Un personaggio dipendente dalle droghe, modellato - racconta - su quello letterario di Sherlock Holmes.
Storie da raccontare, dunque. L'unica certezza che rimane nel futuro di una televisione con i palinsesti «distrutti» da Internet: «Vincerà probabilmente la formula del pay-per-view: gli spettatori pagheranno direttamente per i contenuti, pagheranno per vedere le nostre storie. E io, sì, sarò ancora lì per un po'». Dietro le telecamere.
MIAMI VICE I SOPRANO DR HOUSE DAN ATTIAS DAN ATTIAS
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