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Marco Giusti per Dagospia
Festival di Roma. Secondo giorno. Non sarà un capolavoro, ma è comunque un filmone questo attesissimo Snowden di Oliver Stone, scritto assieme a Kieran Fitzgeral (The Homesman) e tratto da due libri giornalistici ispirati al caso, di Luke Harding e di Anatoly Kucherena.
Inoltre offre a Joseph Gordon-Levitt l’occasione per una sicura candidatura all’Oscar vista la complessità della sua interpretazione, tra il paranoico e il supernerd, nel renderci un Edward Snowden che cerca a tutti i costi di mantenere una sua vita privata, normale, mentre lavora a progetti segretissimi e rischiosissimi per la CIA e per la NSA, mentre tratta con dei capi che sono dei veri criminali.
Tutto il film è costruito su uno Snowden appena scappato dalla base NSA delle Hawaii, chiuso in un albergo a Hong Kong nel 2013, che è pronto a dare i suoi segreti a due giornalisti progressisti, Ewen MacAskill del Guardian, interpretato da Tom Wilkinson, e Glenn Greenwald dello Washington Post, interpretato da Zachary Quinto, mentre la filmaker militante Laura Poitras, Melissa Leo, gira un documentario verità, Citizenfour, da Oscar.
Le rivelazioni di Snowden, collaboratore di punta di CIA e NSA, sono clamorose e faranno, come sappiamo, il giro del mondo, dimostrando come lo stato più potente del mondo ci abbia schedato tutti e controlli le nostre vite attraverso computer, cellulari, mail, sms, d’accordo con Facebook, Google, You Tube, Yahoo e gran parte dei maggiori tycoon della rete.
La storia di Snowden, da giovane genio informatico alla scuola di spie della CIA, anche un bel po’ conservatore, a Robin Hood della rete è raccontata con grandi flash back che vedono nel corso del tempo la sua trasformazione via via che si rende conto che il suo lavoro e le sue invenzioni vengono usate dai suoi capi o per usi militari, come la connessione coi droni per eliminare terroristi sospetti in Medio Oriente, o per combattere hackeraggi cinesi o russi.
Come spiega bene a Snowden il suo superiore, Corbin, interpretato da Rhys Ifans, la vera guerra americana alla quale prepararsi non è quella in Iraq o quella al terrorismo, ma quella futura, del tutto informatica si spera, con le altre potenze, Russia, Cina…
La situazione attuale, con il conflitto non dichiarato ma latente fra Russia e America, con lo stesso Snowden chiuso nella Russia di Putin, dimostrano l’esattezza della tesi di Snowden e di Stone. Magari, come spesso capita nei film legati alla realtà informatica e ai suoi pirati, non si riesce a definire mai bene un personaggio che vive quasi tutta la sua vita di fronte a un computer.
Era lo stesso problema dei film su Assange e su Zuckerberg. In questo caso, Stone e il suo co-sceneggiatore, danno molto spazio alla storia sentimentale di Snowden con la sua fidanzata, Lindsay, interpretata dall’emergente Shaileen Woodley, che cerca costantemente di riportare indietro, sulla terra, il genio rapito dalla ricerca. Ma non è facile lo stesso vitalizzare la storia di un personaggio così chiuso dentro la sua ricerca che trova nella fuga la sua sola scelta avventurosa.
Con una grande fotografia di Anthony Dod-Mantle (Rush, Il milionario), un grande montaggio, un perfetto uso della musica, c’è perfino una canzone inedita di Peter Gabriel, Stone riesce a spettacolarizzare la storia quanto può. Chiama a raccolta anche attori famosi come Nicholas Cage per un cammeo. Il risultato non è il grande ritorno che ci si aspettava di Oliver Stone alle altezze di un JFK o di un Nixon, ma è comunque un ottimo film che dice parecchie verità scomode agli americani e ai loro governi in un momento tremendo come questo delle elezioni Trump-Hillary.
Stone non è tenero neanche con Obama, visto dallo stesso Snowden, che in un primo tempo ci aveva creduto, come un fallimento, anche se le rivelazioni del Guardian lo obbligheranno a prendere posizione sulla pratica di spionaggio costante della CIA verso gli stessi cittadini americani. Detto questo, è un film che si vede con grande piacere, anche se ai critici americani non è piaciuto granché.
“Piatto, lieve, senza psicologia” lo descrive Richard Brody del New Yorker, “sembra un po’ The Bourne Identity senza caccia e inseguimenti, ma così è come un panino al prosciutto e formaggio senza prosciutto e formaggio” scrive Kyle Smth del New York Post. I più elogiano Joseph Gordon-Levitt e trovano troppo piatto e hollywoodiano il film, quando il documentario girato da Laura Poitras, Citizenfour, premiato con l’Oscar, era forte e vero. Ma fateglielo fare a Renzo Martinelli questo film o a qualsiasi altro regista italiano e vediamo cosa tira fuori.
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