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INTRAPPOLATI NELLA RETE - IL SAGGIO DI PAMELA PAUL, DOVE VENGONO ELENCATE LE CENTO COSE CHE ABBIAMO PERSO PER COLPA DI INTERNET – L’“ESTINZIONE” DELLA NOIA “CHE RENDE LE PERSONE MENO ANNOIATE”, LA SCOMPARSA DEL “PUNTO” PER COLPA DI WHATSAPP E LA PERDITA DELLA PRIVACY: ORMAI CON IL PROLIFERARE DI APP E NOVITÀ TECNOLOGICHE BISOGNA SAPER SCEGLIERE COSA SERVE DAVVERO...

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Caterina Soffici per "la Stampa"

PAMELA PAUL

 

Non c'è bisogno di essere nostalgici malinconici, luddisti paranoici o seguaci della decrescita felice per condividere ogni parola dell'ultimo libro di Pamela Paul, la cinquantenne direttrice del New York Review of Books che elenca le cento cose che abbiamo perso per colpa di Internet. In 100 Things we' ve Lost to the Internet la scrittrice americana prosegue il suo viaggio (questo è l'ottavo libro) nel mondo che definisce «l'intersezione tra la cultura del consumo e la vita reale».

 

Il suo è un lavoro che incrocia sociologia, antropologia culturale e giornalismo. Ha scritto cose interessanti su come la pornografia sta trasformando la vita delle famiglie e una bella guida per allontanare i bambini dagli schermi e riportarli sui libri. Alla base del suo ultimo libro c'è una presa di coscienza iniziata nel 2017, quando di fronte a ogni nuova app o a un aggiornamento o una diavoleria tecnologica si è posta la domanda: «questa cosa serve davvero?». 

 

LE CENTO COSE CHE ABBIAMO PERSO PER COLPA DI INTERNET

Molte volte la risposta è sì, e lei stessa sul lavoro è sempre iperconnessa, ha una decina di pagine aperte sul computer, usa Zoom e le altre piattaforme e ogni tipo di tecnologia (tra l'altro è super presente su Twitter ed è stato il suo giornale il primo a produrre podcast). Non vive in una grotta, insomma. Molte altre volte invece la risposta è no, questa nuova app, questo strumento tecnologico non serve. 

 

E su queste si basa l'elenco delle cento cose perdute, divise in capitoli che sono piccoli racconti, aggraziati da divertenti disegni, in puro stile New York Review of Books. Il problema, secondo Pamela Paul, è arrivare a una «consapevolezza della scelta», con la possibilità di rifiutare nella vita privata ciò che non riteniamo utile. 

 

La scrittrice non è abbonata allo streaming di Netflix e si fa mandare i Dvd per posta (sempre da Netflix: è incredibile, esiste ancora questo servizio), perché sostiene che «less is more», ovvero che la troppa scelta sia non solo inutile ma controproducente, perché tra quello che le propongono non c'è mai quello che le interessa. Ha dotato i suoi due figli di CD portatili per ascoltare la musica (a quando la rivolta domestica per ottenere un account su Spotify?). 

 

DIPENDENZA INTERNET

Non usa il tablet («hanno provato a darmelo - ha detto in una divertente intervista al Guardian - ma dovrebbero pagarmi uno stipendio di tipo 250 mila dollari all'anno per usare un Kindle o un iPad per leggere»). Come responsabile di una rivista che parla di libri il suo ragionamento è così vero che non si può non sottoscrivere in pieno: un conto è avere un volume in mano, sfogliarlo, annusarlo, poter leggiucchiare qua e là, per capire al volo l'oggetto e il contenuto. 

 

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Molto più difficile farlo su un Pdf o su un file e-book, dove non puoi mettere orecchiette, post-it e le pagine progrediscono in percentuale. Il libro non è una tirata apocalittica sui pericoli di Internet e neppure si toccano le recenti polemiche su Facebook o il Metaverso o le Fake News (ma di certo non piacerà a Mark Zuckerberg), piuttosto una carrellata di riflessioni in forma di piccoli saggi (dai titoli come Solitudine, Ignorare le persone, Lasciare un messaggio, L'attenzione di un genitore) su piccole cose perdute ma soprattutto stati d'animo. 

 

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Il primo capitolo è dedicato alla noia, alla bellezza e necessità di aver tempo di annoiarsi. «Un po' di noia rende le persone meno annoiate» dice, ricordando quel senso del tempo non riempito che avevamo da bambini, quando seduti sul sedile posteriore dell'auto dei genitori, senza un telefonino in mano o un tablet, eravamo costretti a guardare fuori dal finestrino e riempire il vuoto creando dei pensieri. Anche guardare fuori da una finestra è una cosa persa. 

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Ma si ragiona anche sulla scomparsa del «punto» e di come sia cambiato l'uso della punteggiatura: chi usa più il punto su WhatsApp? O sulla bellezza di un viaggio pre Gps, alla vecchia maniera, quando si usavano grandi mappe che nessuno riusciva più a piegare per il verso giusto o si era costretti a interagire con altri esseri umani. O sull'emozione di ricevere una cartolina. O sulla memoria perduta dei numeri di telefono. 

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Per non parlare della perdita della privacy (notifiche a ogni ora, mail, messaggi notturni). Poi ci sono anche cose che sinceramente nessuno rimpiange: i libretti degli assegni, il Rolodex (lo schedario telefonico a rullo), i vecchi telefoni, le enciclopedie, l'agenda Filofax (sempre meglio, comunque, del calendario su Google). 

 

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La cosa che stupisce più di tutto, scorrendo l'elenco di Pamela Paul, è la velocità con cui tutti questi oggetti e sensazioni ed emozioni sono stati ingurgitati da Internet. Tutto sparito in meno di vent' anni, senza che neppure ce ne siamo resi conto, perché l'innovazione è andata avanti per tanti piccoli cambiamenti. 

 

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Ognuno può vederla come crede, ma è innegabile che per colpa di Internet molte delle esperienze umane che conoscevamo sono scomparse. L'importante, per Pamela Paul, è esserne consci e esercitare il nostro potere di scelta. Nessuno ci obbliga a pagare con Paypal o a comprare su Amazon un prodotto che si può prendere uscendo di casa, facendo due passi tra altri umani, entrare in un negozio gestito da umani e parlare con altri umani. 

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L'importante è sapere che quando la risposta alla domanda iniziale («ma serve davvero?») è no, quella App o quel servizio è un prodotto commerciale, che ha il solo scopo di far guadagnare chi lo vende. Basta non cascarci. -