DAGOREPORT - ED ORA, CHE È STATO “ASSOLTO PERCHÉ IL FATTO NON SUSSISTE”, CHE SUCCEDE? SALVINI…
Claudia Casiraghi per “la Verità”
Beppe Vessicchio avrebbe dovuto fare l' architetto. Lo aveva promesso al padre, in quel parlare astratto che la coscienza individuale finisce per caricare di significati concreti. «Ventenne, mi barcamenavo tra la vita di studente, di giorno, e quella di musicista, la notte. Mio padre, una mattina, mi rimbeccò.
"Io ti vedo distrutto, sei sicuro che una volta laureato farai l' architetto?". "No", risposi. "Ma allora sei scemo", mi disse lui, e allora capii che aveva ragione». Vessicchio, quel giorno, si liberò dalla tirannia del pezzo di carta e si dedicò alla musica, che negli anni gli avrebbe portato fama e onori. Avrebbe vinto Sanremo quattro volte, come direttore d' orchestra, scritto per e con Gino Paoli, partecipato ad Amici di Maria De Filippi. Avrebbe visto la sua barba, bianca e lunga, diventare un meme. «Me la taglierei solo per una causa di rilevanza sociale», racconta oggi, presentando un progetto insolito.
Dalle 17.45 del 15 dicembre, su Dea Kids (canale 601 di Sky), Vessicchio sarà parte di Monstershop: una sketch comedy per bambini dalle tinte horror.
Com' è nato il progetto?
«Me n' è arrivata richiesta tramite l' Antoniano di Bologna. Recito e mi occupo della sigla».
Lei si occupa anche dello Zecchino d' Oro. Che rapporto ha con il pubblico più giovane?
«Ho iniziato a fare musica in tv negli anni Ottanta, accattivandomi, attraverso programmi che giocavano sulla memoria e la nostalgia della musica napoletana, un pubblico di nonne. Con Amici, più tardi, sono arrivati i ragazzini, ma i bambini sono speciali».
Perché?
«Perché non sono compromessi culturalmente. La prima, dannata azione che facciamo è quella di proteggerci. Ma fino ai 15 anni le attitudini sono pure. Solo dopo, pensi a cosa ti converrebbe fare, che forse sarebbe più utile essere un medico. Nello stato d' infanzia, è ancora permesso coltivare sogni».
Abbandonarli, spesso, è frutto di una necessità sociale precisa.
«Penso sia frutto, piuttosto, di un vizio culturale. Trovare una collocazione sociale è necessario, ma spesso per una forma di affezione ai principi familiari, o per non contraddire le aspettative altrui, facciamo cose che non vorremmo. È meglio un batterista felice di un medico frustrato».
I talent però oggi insegnano che il talento, anche se grezzo, può riscattare una vita mediocre.
«Lo fanno. E, almeno in ambito musicale, il talento allo stato brado funziona. Solo che non prepara alla vita. Coloro che restano allo stato brado possono cavalcare l' onda oggi e domani esserne sopraffatti. Conoscendo la musica, invece, non sarai sulla cresta dell' onda, ma avrai guadagnato un posto reale nel mondo che ami».
Perciò Sanremo è ormai incapace di sfornare il fenomeno?
«Credo di sì. C' è una data precisa, che è il 2001, quando Giorgia ed Elisa gareggiarono per il primo posto, in cui si è avuta per l' ultima volta avvisaglia di due interpreti straordinari e di brani forti. Da quell' anno in poi faccio una fatica enorme a ricordare brani che abbiano lasciato il segno»
Eppure, il Festival continua ad avere un successo enorme.
«Televisivo, però. Dal punto di vista musicale, Sanremo non è più riuscito a scrivere la storia. In passato, Tutto quello che è un uomo di Sergio Cammariere non vinse e non vinsero Zucchero o Vasco, ma lasciarono una canzone. Oggi anche quelli che vincono, faticano a fare altrettanto. È tutto improntato alla ricerca dell' effetto momentaneo: è tutto trap, tutto rap».
Cosa ne pensa della trap?
«Non è niente di nuovo. Di primo acchito potrebbe sembrare sorprendente, ma se prendiamo la storia della musica troviamo che espressioni simili sono già esistite.
Il rap esisteva nel 1830. A Napoli, in piazza Mercato, erano indette gare di freestyle. C' era un bussolotto, l' obbligo di utilizzare un certo tipo di rima e un tema da seguire. E c' era una melodia da creare».
Nel 1982, recitò in Giggi il bullo di Marino Girolami. Perché smise?
«Quello fu il riflesso di un' altra attività. Per avere l' opportunità di suonare, da giovane, entrai in una compagnia teatrale. A un certo punto, uno dei componenti del gruppo andò via. Mi chiesero di rimpiazzarlo e, quando capirono di poter risparmiare la paga di un attore, la cosa andò avanti».
Al cinema come ci arrivò?
«Si creò un' opportunità professionale, ci vollero in un film. Allora, partecipai anche a dei programmi tv, come attore e cabarettista. Però soffrivo il fatto di sottrarre tempo e attenzioni alla musica. Così, come fanno i collaboratori domestici, diedi i miei 30 giorni di preavviso. Fu la loro fortuna e la mia, perché loro trovarono un altro e di lì a poco diventarono i Tre Tre».
Cinema e tv, negli anni, non l' hanno mai corteggiata?
«Mi cercano per le pubblicità. Le richieste di partecipazione ai programmi sono tante, ma è difficile che vada. Penso che la coerenza abbia un costo».
Perché, all' epoca, disse sì a Maria De Filippi?
peppe vessicchio alba parietti
«Le dissi sì nel 2001, il programma si chiamava Saranno Famosi. Mi chiesero se potesse farmi piacere partecipare all' ipotesi di una scuola d' arte. C' era Bruno Voglino, tra i più importanti capistruttura di Rai 3. C' era l' ipotesi di tirare dentro Galimberti. Si parlava di personaggi con uno spessore culturale enorme».
Oggi quel potenziale non c' è più?
«Amici non è più lo stesso di allora. In televisione, come dice la signora De Filippi, per resistere è necessario saper cambiare pelle. E Amici, quanto a numeri, va bene. Solo, trovo sia un po' di tempo che non produce più niente, che vive una sorta di stanchezza».
Ha ricevuto offerte politiche?
«Sì, e ho troncato le trattative sul nascere. Mi hanno cercato da tutte le parti. Cosa, questa, che non fa che aumentare lo stato di confusione. Mi sembra che ultimamente si sia più vittime degli schemi dell' organizzazione che protagonisti delle idee».
Il binomio Vessicchio-Sanremo non la stanca mai?
«Continuano a chiedermi se farò Sanremo e la verità è che non lo so, né so cosa augurarmi. Sono le case discografiche che mi invitano, a seconda dell' artista inserito in gara. Fossi un calcolatore, potrei augurarmi di non essere chiamato così che tutti potessero rincorrermi».
Cosa ricorda dei Festival di Pippo Baudo?
«Ricordo l' attaccamento al programma. Quando cominciava il Festival, dal primo giorno di prova, Baudo era a Sanremo. I conduttori più recenti arrivano gli ultimi giorni».
Si riferisce a Carlo Conti e Claudio Baglioni?
«Sì, come attaccamento allo show, Baudo non ha eguali. Ascoltava tutte le prove, sin dalla prima, e correggeva. Ricordo che Bocelli, in Con te partirò, non aveva il finale. Baudo, quando scoprì sul palco come sarebbe finito il brano, si indignò: "Non può finire così". Tornarono in studio di registrazione e aggiunsero una chiusa. Pippo sceglieva fin come dovessero essere disposti i fiori. Era il padrone di casa, direttore artistico a tutti gli effetti».
Non sente mai la mancanza di un programma tutto suo?
«È una cosa di cui stiamo parlando. Sto lavorando a un progetto che vedremo se destinare alla Rai o ad altri: uno show di divulgazione musicale».
Ha scritto un libro: La musica fa crescere i pomodori. Le teorie che contiene ne saranno parte?
«Assolutamente. L' indagine dei valori naturali della musica è molto importante, perché potrebbe essere d' aiuto non solo alle vacche per ottimizzare la produzione del latte, ma agli esseri umani. Io sto collaborando con l' Ospedale oncologico di Paola, in Calabria. Attraverso una serie di mie sperimentazioni stiamo verificando se il sostegno sonoro, udibile o no, possa produrre qualcosa di buono. E abbiamo dei bei dati».
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