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Marco Giusti per Dagospia
Trust di Danny Boyle
Seee… vabbé… Già dal trailer con “Money” dei Pink Floyd e Donald Sutherland cattivissimo si capiva che “Trust – The Getty Family Saga”, cioè la serie sul rapimento Getty ideata da Simon Beaufoy e diretta, almeno per i primi tre episodi, da Danny Boyle, che vedremo dal 28 marzo su Sky Atlantic, non poteva che essere totalmente superiore al disastrato e disastroso Tutti i soldi del mondo, il film girato sullo stesso tema e sugli stessi set da Ridley Scott e uscito alla fine del 2017.
La visione dei primi tre episodi diretti appunto da Danny Boyle, che raccontano la storia da tre punti di vista diversi, quello del vecchio John Paul Getty, quello del texano Fletcher Chase interpretato da Brendan Fraser, quello del giovane John Paul Getty III, interpretato da Harris Dickinson, nella Roma tutta coca e rock’n roll del 1973, ci offrono già moltissimo.
Più musica, di tutto dai Pink Floyd ai Rolling Stones a “Prisencolinensinainciusol” di Adriano Celentano, più coca, soprattutto quello che scorre a fiumi nell’appartamento del ragazzo a Roma, più sesso, sia con le gemelline Laura e Sarah Bellini che troviamo a Roma con J. Paul Getty III, sia con le quattro donne dell’harem di J. Paul Getty I nella sua assurda villa, Sutton Place.
E più violenza, ovviamente, visto che al posto di un assurdo Romain Duris che faceva il calabrese, abbiamo qui un terribile Luca Marinelli nei panni del bandito Primo, puro spaghetti western. Ecco, se qualche concessione alla Roma mischione di “Dolce vita” e “Grande bellezza” la fa anche Danny Boyle (qualcuno ci spiega perché?), se mette qualche cazzatona assurda come il Giordano Bruno-mimo pitturato impensabile in quegli anni, la sua Roma drogatona e fuori di testa, bella e pericolosa, è ben più credibile di quella del film di Ridley Scott e recupera, anche nella musica e nelle inquadrature, la grande follia dell’epoca degli spaghetti western mischiandoli con i deliri degli anni della droga, come era nella realtà dei racconti degli americani strafattoni a Roma del tempo.
Americani che furono spesso anche attori o comparse negli spaghetti western e portarono una bella dose di eccesso e di acidi nel genere ma anche nella città. Inoltre Boyle di drogati se ne intende parecchio e il giovane Harris Dickinson, anche se non ha la dolcezza di Charlie Plummer, è un J. Paul Getty III molto più angelo pazzo e Golden Boy smarrito, perso in una Roma piena di trappole e di tentazioni e di scontri politici.
Grazie alla fotografia di Christopher Ross e a un montaggio decisamente più scatenato, che mischia Rolling Stones, Piunk Floyd, Uriah Heep e temi western, riusciamo a credere a questi anni ’70 presentati da Boyle, che almeno si sforza di riportarci a una Roma che ricordiamo, con tanto di muri pieni di manifesti e poliziotti col manganello sempre pronto. La polizia, qui, almeno nelle prime tre puntate, non fa da stampella all’uomo della Cia inviato da Getty I, ma decide volutamente che non ha tanto tempo da perdere nei sequestri, visto che se si paga, le cose si risolvono.
In tutto ciò Brendan Fraser, con cappellone Stetson e cintura texana, più bolso e taurino, fa un ritorno memorabile dopo anni di assenza dal cinema. Sembra un po’ le parodie degli americani dei film di Dusan Makajevic, ma anche il vero texano che arriva sui set italiani pieno di soldi da offrire. E, anche se abbiamo tutti molto apprezzato il J. Paul Getty I di Christopher Plummer, perfetto anche come “antidoto” al cancellamento/licenziamento del J. Paul Getty I di Kevin Spacey per molestie, bisogna riconoscere che quello di Donald Sutherland, magari anche perché ha più parte e più situazioni, è davvero strepitoso.
Luciferino e gioioso, nelle scene di sesso con le sue donne, riesce a riprendere l’occhio che aveva nel Casanova di Fellini, e quella dipendenza dalle proprie ossessioni e dalla morte. Qui è un Casanova corrotto e cattivo, chiuso dentro il suo castello, che sembra aprirsi solo con la follia di sesso e rock’n’ roll del nipotino, e che deve dominare ogni scena che Danny Boyle gli prepara.
Se la figura della mamma del ragazzo, Gail Harris, interpretata qui da Hilary Swank, meno palpitante di Michelle Williams, ma le due se la battono, ha ancora il giusto valore, non scompare del tutto però, come nel film di Scott, quella del padre J. Paul Getty II, interpretato da Michael Esner, e fidanzato con la bellissima Talita, che non è purtroppo bella nella serie come lo era nella vita reale.
La parte italiana, rispetto almeno a quello che si è visto nelle prime tre puntate, è qui in gran parte affidata a un Giuseppe Battiston, amico ambiguo del Golden Boy, e al cattivissimo bandito calabrese Primo di Luca Marinelli, che sembra provenire sia dallo spaghetto western, per come spara, sia dai Tomas Milian fuori di testa dei primi poliziotteschi di Lenzi.
Se lo prendiamo così, cioè come ritorno al genere, funziona decisamente meglio del Romain Duris realistico ma con assurdo accento francese del bandito di Tutti i soldi del mondo. Comunque vedremo come la serie procederà, visto che la regia di Danny Boyle si ferma qui, anche perché sta preparando il nuovo James Bond, mentre la serie andrà avanti con altre sette puntate dirette da Dawn Stafford, Jonathan van Tulleford, Susanna White e Emanuele Crialese. In onda in America dal 25 marzo e da noi su Sky Atlantic dal 28 marzo.
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