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Walter Siti per "la Stampa"
L'Anna Karenina di RaiUno è stata pensata per un pubblico internazionale: prodotta, oltre che dalla Rai, dalla Lux Vide di Bernabei e dalla francese Pampa Productions, recitata in inglese (come è facile verificare osservando il labiale) e successivamente doppiata in italiano. Quanta parte dell'auspicato pubblico mainstream sarebbe oggi in grado di leggere la Karenina di Tolstoj? Probabilmente assai pochi: si arrenderebbero presto alla lunghezza del testo, alle sue complicazioni intellettuali, alla sottigliezza delle psicologie e all'apparente insignificanza di molti episodi collaterali.
Di qui, per chi punti alla grande audience planetaria, la necessità di semplificare e banalizzare abolendo i tempi morti della conversazione e dei pensieri, puntando tutto sulla drammaticità esplicita e rozza. Tanto, sperano i riduttori, un classico è sempre un classico e arriva comunque.
Costretta alle due puntate canoniche delle fiction di RaiUno, la banalizzazione drammatica è stata in questo caso particolarmente spietata; troppo poco mélo la scoperta del tradimento da parte di Dolly mediante un biglietto, bisogna farle trovare il marito a letto con l'altra; Vronsky in Tolstoj si limita ad allontanarsi addolorato dalla cavallina ferita, qui la finisce sparandole personalmente; Anna se ne va di casa in braccio all'amante vedendo alla finestra il figlio che la spia, in perfetto stile Matarazzo; il valzer viennese formale e galeotto diventa la colonna sonora di Moulin Rouge mentre la coppia volteggia nel turbine d'amore.
Il classico come fotoromanzo, e passi. Ma il vero peccato capitale del democristianismo bernabeiano è stato quello di voler moralizzare Tolstoj, forzando oltre il lecito l'opposizione tra Anna e Kitty. Eroicizzando inutilmente la seconda, facendola diventare infermiera volontaria al fronte franco-prussiano invece che mandarla, come nel testo, a passare tranquillamente le acque in una cittadina termale tedesca; e svalutando la prima, che si butta sotto al treno come uno straccio qualunque mentre le cose importanti vanno avanti senza di lei.
Anna è il centro della moralità tolstojana, il suo calvario è il contraltare necessario ai dubbi metafisici di Levin. Il finale di Tolstoj è terribilmente sofferto nella sua positività , non è uno spot sciocco sulla famiglia come quello a cui abbiamo dovuto assistere («le famiglie felici si assomigliano perché la felicità in fondo è la stessa per tutti»).
Ammesso (e non concesso) che per i prodotti popolari un lieto fine sia indispensabile, si può almeno chiedere che lo si ottenga con un minimo di decenza intellettuale, senza considerare gli spettatori dei minus habentes? Se togli la vita intorno a un plot romanzesco gli togli l'aria e il bene agisce a vuoto in un teatrino di marionette. Meglio allora stravolgere completamente un classico, modernizzarlo sul serio senza timori reverenziali: non solo presentando la madre di Kitty come una anziana signora visibilmente stirata dalla chirurgia plastica.
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