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Laura Freeman per “The Spectator”
Puoi essere un padre utile e amorevole se vedi i tuoi figli solo tramite schermo del computer? Molti di noi risponderebbero di no. Essere genitore significa essere fisicamente presente, eppure i nostri tribunali sembrano pensarla diversamente, ritengono che una chiacchiera via Skype sia tutto ciò di cui c’è bisogno per stabilire un legame.
I giudici britannici e americani recentemente hanno a che fare con casi complicati sulla custodia dei minori. Viaggiamo più che in passato, spesso incontriamo i nostri partner all’estero, e, quando il rapporto si interrompe, come accade in 4 matrimoni su 10, in genere è la moglie a tenere i figli. In passato sarebbe stata costretta a farli incontrare regolarmente con il padre, oggi invece si tende ad optare per le “visite virtuali”. Per i giudici una madre può andare dove vuole con i figli, basta che il contatto con il padre avvenga tramite video-chiamata. E’ una situazione disperata per gli “Skype Dads”, secondo i quali questi contatti sono più un dovere serale che la seria possibilità di fare il genitore.
E’ il caso di David, che parla ai figli via schermo due volte a settimana. Hanno sei e otto anni, vivono con la madre in Svezia, mentre lui risiede in Inghilterra: «Sento che il nostro rapporto si deteriora di settimana in settimana. E’ la peggiore forma di tortura per un genitore».
SEMPRE PIU PADRI VEDONO I FIGLI SONO SU SKYPE
Gli “Skype Dads” sono comuni dal 2002. Il primo fu Michael Gough, ingegnere di software per “Hewlett Packard”, che conosceva un kit per le videoconferenze e propose al giudice di usarlo per restare connesso ai suoi pargoli. Fece una dimostrazione in tribunale e convinse il giudice a includere le video-chiamate nell’accordo di custodia. “Skype” fu lanciato proprio alla fine di quell’anno. All’inizio il servizio era troppo costoso, ma oggi è gratuito e accessibile a tutti. Le corti inglesi hanno seguito l’esempio americano. Nel 2011
un padre di Devon tentò di fermare la sua ex, che voleva portarsi i due figli in Australia. Il giudice fu persuaso dai legali della donna che la tecnologia potesse permettere alla famiglia di restare unita. Per 11 mesi l’anno ci avrebbe pensato “Skype”, per un mese i bambini avrebbero raggiunto il papà in Gran Bretagna.
Spesso le rassicurazioni sulla custodia svaniscono nel momento stesso in cui l’aereo atterra altrove. Soprattutto se il divorzio è stato acrimonioso, chi tiene i figli se ne va e non tiene fede agli accordi, consapevole che perseguirlo all’estero diventerebbe un incubo. Ad esempio Andrew ha ottenuto dalla corte di Singapore di vedere i due figli e di poter trascorrere con loro tempo illimitato su Skype, ma la ex moglie si è trasferita con i figli in Oman, paese che non riconosce l’ordine dato dalla corte di Singapore. Risultato: Andrew non vede i suoi figli da due anni. Aspetta con ansia che siano grandi abbastanza per contattarlo autonomamente e intanto spenderà tutti i suoi soldi per riaprire il caso in Oman.
Da tre anni Adam parla una volta a settimana con suo figlio, trasferito in Australia. Lo chiama il venerdì notte, che in Australia è sabato mattina. Non lo è mai andato a prendere a scuola, non lo ha mai nemmeno visto in divisa scolastica. Lo conosce solo appena sveglio, quando un bambino non vede l’ora di attaccare per giocare un po’ e scalmanarsi. In genere le video-chiamate sono sorvegliate dalle madri, il che preclude qualsiasi chiacchierata spontanea e rilassata. Qualche giudice comincia a capire i limiti dei rapporti via Skype. Quest’anno uno di loro ha proibito a una donna di trasferirsi con il figlio a Hong Kong. Lei insisteva a dire che il padre lo avrebbe visto su computer, il giudice ha risposto: «Su Skype non ci si abbraccia».
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