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sergio castellitto nei panni di aldo moro
Malcom Pagani per Vanity Fair
Stagione dopo stagione, con la sola primavera a separarlo dai suoi primi sessantacinque anni, Sergio Castellitto ha imparato ad alleggerire il bagaglio: «Credo di aver raggiunto una bella serenità, non lavoro più per ambizione, ma per il piacere». Cova ancora qualche inquietudine: «È una benzina utile a non restare immobili» e da molto tempo ha smesso di credere alla separazione tra vita e arte: «I problemi iniziano proprio quando tenti di scindere i due ambiti. Una dimensione ha sempre nutrito l’altra perché il grande privilegio, alla fine, è poter dire la verità senza farsi scoprire. Esporsi, senza svelarsi completamente».
Passando con disinvoltura davanti e dietro al suo sipario, la macchina da presa, Castellitto è in scena da più di tre decenni. L’ultimo film (il tuttofare di Valerio Attanasio, distribuisce Vision dal 19 aprile) lo vede nel ruolo di un avvocato apparentemente generoso: «Che finge di amare i giovani e li assume, ma in realtà li odia. Il mio personaggio è la silhouette di un eterno italiano che sembra sempre sull’orlo dell’estinzione e invece, ancora oggi, vince comunque perché incarna aspetti che evidentemente fanno parte del carattere nazionale».
Giovane è stato anche lei.
«Ero preda delle idee degli altri. Oggi osservo i miei figli e mi pare abbiano una visione del mondo più personale di quella che avevo io. A vent’anni affronti la vita a senso unico. Corri in salita o in discesa, ma verso un un’unica direzione. Poi il tempo passa e capisci che la strada non è un senso unico, ma ha almeno due corsie. E che esiste quindi qualcuno che ti viene incontro, qualcuno che ti viene addosso e qualcuno che ti supera».
E questa consapevolezza cosa offre?
«Il privilegio della tranquillità. L’esistenza è diventata una corsa isterica a sembrare giovani a qualsiasi età. Io giovane non sono più perché dal 1953 è passato tanto tempo. La vita non la fermi in una fotografia. Ha senso soltanto perché trascorre».
La prima fotografia della sua vita?
«Forse i disegni di mio padre. Molisano, si era trasferito a Roma in gioventù per lavorare come impiegato. Con noi aveva un rapporto di amore istintivo: carnale, animalesco, ruvido. Più felice e struggente con i miei fratelli che con me. Ero l’ultimo figlio, lui era molto anziano. Era profondamente diverso e lontano da me. Nonostante questo, un qualche talento artistico deve avermelo passato. Cantava spesso, arrangiava canzoni con la chitarra e come le dicevo, faceva le caricature. Caricature geniali».
Cosa disegnava?
«Colleghi d’ufficio soprattutto. Tornava con il suo cumulo di fogli, ce li mostrava. Era il suo modo di prendere in giro gli altri, ma anche di conoscerli e raccontarci il suo punto di vista sul mondo».
Per un attore è più difficile non diventare la caricatura di se stesso?
«Assolutamente sì. Ho fatto l’attore per tutta la vita e ho capito tardi che recitare era soltanto un modo di sfuggire a quella condanna. Per non essere la caricatura di me stesso ho dovuto indossare le caricature degli altri. Sono stato protetto dalle storie inventate e scritte per me. Mi sono infilato le maschere e sono passato indenne attraverso i decenni».
Esiste un segreto?
«Ho sempre pensato che per fare bene il mio lavoro bisognasse disprezzarlo almeno un po’. Se riesci a disprezzarne la natura intrinseca, quella di essere sempre a disposizione di mondi poetici immaginati da altri, riesci a sopportare meglio la regola del gioco. L’oggettiva condizione di subordinazione».
Cos’altro serve?
«Un’intenzione pensante. Pur non essendo per fortuna mai stato uno che rompeva i coglioni ai registi, ho sempre tentato di avere un mio punto di vista sulle cose».
Quanto è cambiato il suo punto di vista dal giorno dell’esordio?
«Se non fosse cambiato oggi farei altro. Oggi faccio con divertimento assoluto un mestiere che solo quindici anni fa, per stupidi pruriti e sciocchi pudori, affrontavo con meno tranquillità. Era ancora l’età dell’ambizione».
Come sono stati gli anni dell’ambizione?
«Sono stati gli anni della nevrosi e di una certa isteria in parte affascinante. Gli anni del desiderio di ottenere qualcosa, di raggiungere un obiettivo, di acquisire ciò che chiamiamo successo, potere o autorevolezza. Negli anni dell’ambizione ti osservi dall’esterno e il tuo centro è sempre distantissimo da te. Poi alla fine, l’unica cosa che davvero conta e che ti resta è l’analisi continua di te stesso. Il viaggio verso di te».
Lei ce l’ha fatta?
«Sì, ma per conquistare questa bellissima libertà mi ci è voluto tempo. Ho dovuto smascherarmi, venire a patti con l’idea che non ero libero, arrivare all’essenza delle cose. Ogni mattina mi sveglio molto presto e trascorro un quarto d’ora cercando di liberare la testa dai programmi, dall’organizzazione della giornata, dalle previsioni, dai progetti, per rimanere in un’acqua ferma che non significa per forza un’acqua paludosa. Mi sono liberato da molte angosce e da un certa solitudine. E non mi sento più solo proprio perché ho imparato a stare da solo. Da giovane sarebbe stato impossibile e anche sbagliato. L’acqua da ragazzo non è mai ferma e devi imparare a nuotarci anche se hai paura di affogare».
Lei ha temuto di affogare?
«Sul mio primo set, Tre fratelli di Francesco Rosi, ero terrorizzato. Era l’agosto dell’80, giravamo a Roma, faceva caldissimo e avevo una posa. Da giovane terrorista, dovevo uccidere Philippe Noiret su un autobus. Non dormii e arrivai a girare stravolto, con la mia giacca a vento stretta tra le mani: “Va bene questa?” chiesi. “Va benissimo” mi dissero. Rosi fu gentile. Alla fine della scena, me lo ricordo come se fosse adesso, si girò verso l’operatore con uno sguardo compiaciuto. Era come se stesse dicendo: “Questo tra noi ci può stare”».
Lei negli anni ‘70 distribuiva giornali alle edicole italiane.
«Dalla Gazzetta dello Sport a Le Ore. Scegliere di recitare fu un gesto liberatorio. Cominciai a frequentare l’Accademia e mi ricordo che ero carne giovane, permeabile a tutto, in bilico sul baratro. Mi infilai dentro quel sogno, però avrei potuto farmi affascinare da altre cento utopie. Se avessi incontrato qualcuno che voleva portarmi in una direzione diversa forse l’avrei seguito. E mi sono sempre chiesto come sarebbe diventata la mia vita. Da ragazzo hai bisogno di schierarti in modo folle, radicale, estremo. Vuoi sempre rompere un vetro e per fortuna io li ho rotti nell’ambito della creatività. In molti, nella mia generazione, hanno infranto vetri peggiori»·
Nel suo primo film interpretava un terrorista, presto su Rai 1 incarnerà Aldo Moro.
«Lavorare su Moro nei giorni caldi delle elezioni è stata un’esperienza formidabile. Osservare in tempo reale la campagna elettorale, con questo controcampo continuo tra finzione e realtà, una sorta di ritorno al futuro con lo sguardo rivolto al passato, mi ha fatto capire soprattutto una cosa».
Che cosa?
«Che ci siamo ridotti veramente male. Abbiamo smesso di ascoltare, di conservare una minima qualità di linguaggio e di dialettica, di rispettare quel brandello di democrazia per il quale, anche se dirlo sembra retorico, i nostri nonni avevano lottato. Abbiamo preferito offenderlo, sputarci sopra, distruggerlo. E il risultato è che mancano non solo una prospettiva e un programma, ma proprio una visione del mondo. Sa che le dico? Rimpiango i Moro, i Berlinguer e anche se mi lapideranno, pure i Craxi».
Come mai?
sergio castellitto nei panni di aldo moro
«Perché al di là delle loro responsabilità, erano persone che offrivano soluzioni e lavoro in stretta relazione con le idee. Che proponevano orizzonti e non gossip. Ipotesi di domani poggiate sulla concretezza e non tragiche partite a Risiko dominate dalla virtualità. Ci faccia caso, dopo le elezioni siamo precipitati nella vaghezza più totale. Nessuno ci dice se ci sarà la flat tax, nessuno se il reddito di cittadinanza sarà realizzabile. È un’ipnosi collettiva, uno scacchiere di ironie giornalistiche in un salotto tv, un fondo di giornale che ci spiega dottamente come 16 milioni di italiani siano razzisti o analfabeti».
Ed è sbagliato?
«Sbagliatissimo. Moro ad esempio non avrebbe mai dato degli analfabeti agli elettori perché era uno statista non era un politico: andava in tv una volta l’anno a fare una tribuna elettorale e gli era sufficiente. O rispetti il voto popolare, o mi fai capire che il suffragio universale ti fa schifo e allora poi parlare di democrazia è un po’ inutile».
I registi che ha conosciuto erano democratici?
«Erano capaci di compiere il gesto più generoso che esista: raccontarti una storia.Ferreri diceva una cosa importante: l’immagine è una sola. “Non è tanto importante quello che metti” sosteneva “ma quello che togli”. In un’epoca in cui riproduciamo immagine a una velocità quasi deprimente, resta una lezione che non ti dà più nessuno e un insegnamento fondamentale.
Scola invece, amico, padre e maestro, passava sui suoi set come un turista per caso, ma controllava tutto. Era ironico, leggero e distaccato eppure era autorevolissimo. Con lui continuo ad avere un rapporto. Mi hanno offerto di fare la regia del suo ultimo copione: c’è un libraio a Parigi che vive tra i volumi e la cura di sua figlia, ferma, bloccata, paralizzata in un letto. Atmosfere romantiche e dostoevskiane, quelle che piacevano a lui».
Cos’è cambiato da allora?
«Ieri c’era un parco attori da perdere la testa: la torta riesce anche perché la roba è buona».
I 65 anni sono un traguardo?
«Non dover dimostrare più nulla a nessuno è bellissimo. É veramente bellissimo».
MUTI VERDONE CASTELLITTO STASERA A CASA DI ALICEsergio castellittocastellitto penelope cruz venuto al mondosergio castellitto il sindaco pescatoremargaret mazzantini sergio castellittoCASTELLITTOCASTELLITTO MAZZANTINICASTELLITTOcastellitto gerinivaleria golino e castellitto in treatment castellitto in treatment SERGIO CASTELLITTO E PAOLO GENOVESE CASTELLITTO
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