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Todd McCarthy per “Hollywood Reporter”
Russel e Jackson insieme per tarantino hateful eight
La maggior parte di noi è cresciuta pensando ai cowboy come uomini di poche parole, ma Tarantino prova il contrario nel suo western di tre ore. Non c’è dubbio che sia lui ad aver scritto l’elaborato, pungente, profano e spesso divertente dialogo che il cast mastica e sputa, ma il film è una strana combinazione fra “Ombre rosse” di John Ford, “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie e “A porte chiuse” di Jean-Paul Sartre. Quentin si muove più verso la scrittura che verso la regia. I fan leali lo apprezzeranno (con Samuel L. Jackson), quelli che hanno preferito “Inglourious Basterds” e “Django Unchained” avranno problemi a capire subito questo thriller nichilista.
E’ girato in 70mm, un fatto piuttosto speciale per una generazione abituata al 3D. Il film appare grandioso. Il panorama montano e innevato dà uno splendore denso alla scena della diligenza che porta nel Wyoming il cacciatore di taglie (Kurt Russell) e la sua prigioniera (Jennifer Jason Leigh), raggiunti a breve dall’ex soldato (Jackson), tutti diretti a Red Rock. Il cast si allarga poi con il boia (Tim Roth), il pistolero (Michael Madsen) e il generale razzista (Bruce Dern). Il lungo incontro è quasi tutto girato in una stanza, fra sospetti drammi, risate e sorprese. A che serviva girare in 70mm se la scena è così claustrofobica? Be’, la differenza si vede nei dettagli delle facce, dai pori della pelle ai denti, tutto estremamente vivido. Tarantino è così, un fanatico della celluloide e chi ama belle immagini su grande schermo apprezzerà l’esperienza. Una volta che tutti i personaggi saranno comodi sotto lo stesso tetto, emergeranno pregiudizi, risentimenti, coincidenze, ma ci vorrà parecchio, più che per “Le Iene”.
samuel l jackson in the hateful eight
Niente è come sembra e le cose si complicheranno. Tarantino narra come in “Pulp Fiction” e ha una certa verbosità, ignora la virtù della brevità e si infatua della propria prosa. Jackson qui ha molte opportunità di parola, così come Russell, mentre la Leigh dice cose così depravate da far rigirare nel letto la Linda Blair dell’Esorcista. E’ la prima volta che il Maestro Morricone scrive una colonna sonora originale per Tarantino, ma non è la sua opera migliore, è scura, enfatica, e usata in maniera limitata.
Il “Guardian” dà cinque stelle al film e ad un Tarantino brillante e spietato che mette l’epica americana in un’unica stanza finché gli angoli della casa non sembrano distanti come città e deserti. E’ un’altra pellicola stilosa e intelligente, un western intimo e allo stesso tempo colossale. Il tema di Morricone è teso, sinuoso e cattura come sempre. I personaggi riuniti sotto un unico tetto sembrano usciti da un libro di Agatha Christie ma, come in “Le Iene” non c’è nessuna figura autorevole che prevalga sulle altre e c’è un discorso portato avanti da chi è mortalmente ferito ma ancora in grado di parlare e di minacciare. L’unica autorità è la violenza o la minaccia di violenza, e la tensione è altissima. Nel film c’è un po’ di Sergio Leone e dei pulp-western di Elmore Leonard, la parte drammatica ripensa a Sam Peckinpah, ma non potrebbe che essere di Tarantino. Un thriller a tutti gli effetti.
Anche “Variety” parla bene del film. C’è un’aria familiare, il western di “Django” e la squadra estranea di “Le Iene”, ma si distingue da qualsiasi altro lavoro e i dialoghi sono dinamite. Tarantino dà le battute più belle a Samuel L.Jackson e delega la colonna sonora a Morricone, affidandosi totalmente e smettendo di essere il regista ossessionato dal controllo totale dell’opera. Il piacere del film sta nell’attesa, come nei classici del vecchio west ogni uomo pensa a sé e l’unico modo per interagire con un estraneo è aspettarsi di venire ucciso. Il personaggio più innovativo e memorabile lo interpreta la Leigh, con il volto ammaccato e il carattere brutale. Tarantio la tratta come fosse un altro uomo della ganga.
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