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Gian Paolo Serino per Dagospia
Quante parole? Più che una recensione sembra sudoku la paginata della filosofa Michela Marzano pubblicata ieri da la Repubblica su uno dei capolavori dello scrittore Nathaniel Hawthorne. A giganteggiare nella pagina la foto dell’autore - definito nella didascalia come “uno dei padri fondatori della letteratura statunitense” quando non lo è affatto se non per Wikipedia o per la Treccani Ragazzi: perché è noto il suo genio ma negli Stati Uniti è ritenuto “molto lontano dall’attualità quindi non un classico (si leggano le pagine del grande critico Harold Bloom).
Sempre nella didascalia sono indicate date di nascita e morte (1804-1851) ed è emblematico delle pagine culturali di oggi che nessuno si sia accorto che la recensione di Michela Marzano a La casa dei sette abbainiinizi con “Pubblicato nel 1951”, quindi esattamente 100 anni dopo la sua morte.
Va bene che lo scrittore era affascinato da storie di fantasmi e mistero, ma è anche contro anche la sua stessa volontà volerlo postumo visto che Hawthorne desiderava dare fuoco alle proprie opere.
Leggendo l’articolo le strafalcionate non si contano: Michela Marzano non esita a regalarci perle del tipo: “un malridotto edificio” (quando malridotto di solito è riferito alle persone), poi ci imbattiamo in un “per sovvenire ai propri bisogni” che in italiano è un linguaggio legale da sentenza di tribunale.
Poi ci imbattiamo in un “ma il passato non passa”: a parte che non si inizia una frase con il ma, ma (appunto) senza voler fare i maestrini dalla penna rossa “il passato non passa” è a dir poco cacofonico.
Diciamo cheBorges ha teorizzato il contrario scrivendo che Hawthorne è un precursore di Kafka perché “Il passato è indistruttibile; prima o poi tornano tutte le cose, e una delle cose che tornano è il progetto di abolire il passato”. Marzano vs Borges?
Per Michela Marzano, poi, i protagonisti sono “impregnati di vergogna”: com’è possibile essere impregnati di vergogna? Di solito sei impregnato di profumo o hai il cappotto impregnato di abbacchio dopo il pranzo di Natale: la vergogna no, non l’avevamo ancora letta.
Impregnati di interrogativi…continuiamo la lettura della recensione paginata e troviamo che la casa protagonista aveva la “sommità aguzza”, una licenza poetica piuttosto mal riuscita se non sei Eugenio Montale (“sommità aguzzacome i cocci di bottiglia di Meriggiare pallido e assorto”). Non ci sembra il caso.
Il luogo centrale per la metafora che vuole tramandarci Hawthorne, poi, diventa prima “un negozio” e “una bottega” quando (nessun cenno nell’articolo) è dove uno dei protagonisti sperimenta il “dagherrotipo”, le fotografie. Hawthorne in tutte le sue opere, ma soprattutto in questa, è tra i primi scrittori a descrivere dei personaggi riformatori illuminati (e illuministi) che elevano la scienza ad arte usata a fin di bene.
E ogni pagina de La casa dei sette abbainisi basa appunto sulla dialettica tra luce e ombra. Nessun accenno al fatto che la storia raccontata dallo scrittore non è una sua invenzione, ma è una leggenda: quella del “Processo alle streghe di Salem” (1692).
Hawthorne era convinto che la sua famiglia fosse oppressa da un’oscura e terribile maledizione, triste eredità lasciata dalla malvagità di un suo trisavolo che mandò al rogo 20 donne - cresciute nella repressione sessuale - accusate di stregoneria. Michela Marzano non era la paladina dei diritti delle donne? Non poteva interessarsi?
La casa dei sette abbaini, risente di quella che per lo scrittore americano (naturalizzato, era nato in Inghilterra: anche in questo caso nessun accenno) era una vera e propria ossessione: tanto da cambiare il cognome del trisavolo John Hathorne in Hawthorne (come scrive nel saggio autobiografico La dogana).
Nessun accenno della Marzano anche per quanto riguarda La casa dei sette abbaini che esiste davvero ed è uno dei luoghi letterari più visitati in America.
Continuando a leggere la recensione ci imbattiamo nella “opacità del desiderio”che è un termine psicoanalitico che non si può usare per un’opera letteraria del 1851 e che, forse, è meglio lasciare ai medici quando evidenziano “l’opacità del cristallino”.
E ancora – una delle parole preferite di Michela Marzano- “la casa impregnata di tutto ciò che è successo negli anni”. Impregnata?
Michela Marzano forse è stata fuorviata dalla prefazione di Emanuele Trevi: una prefazione che testimonia come Hawthorne sia davvero perseguitato da una maledizione.
Leggiamo ad esempio: “Affinché un insieme arbitrario ed eterogeneo di parole si regga, per così dire, in piedi da solo, è necessario muoversi sul sottile crinale che separa l’oggettivo e il soggettivo, l’universale e il particolare, la cosa in sé e l’infinità delle proiezioni che vi si possono riversare”.
Forse non basterebbero “Due vite” per comprendere quello che vuole esprimere Trevi. Non avendo tempo diamo la colpa al trisavolo John.
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