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Paolo Di Paolo per “la Stampa”
Filmata da Moretti o da Sorrentino sarebbe una scena memorabile. Serata afosa di luglio a Roma, Ninfeo di Villa Giulia: viene proclamato il nome del vincitore del premio Strega – Elena Ferrante – ma il palco resta deserto. L’autore non c’è, non appare. La platea festeggia e applaude il vuoto. La società letteraria italiana si specchia nel trionfo della Grande Assente: con un entusiasmo che ha qualcosa di simbolico, se non di inquietante.
A margine delle polemiche che stanno accompagnando la candidatura dell’autrice misteriosa allo Strega, vale la pena di mettere a fuoco ancora un dettaglio. Non riguarda il consenso, legittimo e tutto sommato non discutibile, che Ferrante ha presso i lettori. Ma quello - stranamente quasi unanime - che ha fra gli addetti ai lavori.
Nessuno di loro - scrittori, critici, giornalisti culturali - ci spiega perché quelli di Ferrante siano grandi libri. Nicola Lagioia, in corsa anche lui allo Strega, liquidava un romanzo come Libertà di Franzen per via dell’«effetto soap opera», e non ci spiega perché la tetralogia di Ferrante ne sarebbe al riparo. Tutti sembrano cavarsela con sentenze tautologiche: sono belli perché sono belli. Tanto più perché l’autrice non appare: «La resistenza con cui Ferrante si cela ha qualcosa di ammirevole» ha scritto Marino Sinibaldi, direttore di Radio3 e creatore di una bella trasmissione radiofonica,Fahrenheit, in cui ogni pomeriggio vengono intervistati gli scrittori in carne e ossa.
Siete pronti a sparire?
Ferrante, sostiene Sinibaldi, si nega alla visibilità, irride «i meccanismi narcisisti trionfanti». Certo è che, se tutti diventassero come Ferrante, addio trasmissioni radiofoniche, addio ambitissimi programmi tv e addio festival letterari. Niente di male, per carità, anzi. Cari scrittori italiani, siete pronti a sparire tutti? Basta tour di presentazioni, basta andare nelle scuole, basta concedere interviste, fare lezioni di scrittura, basta soprattutto stare su Facebook e su Twitter. Sareste così pieni di charme, nell’ombra!
C’è comunque da scommettere che - qualche mese dopo aver vissuto, con gioia e con sollievo, la vittoria di Ferrante allo Strega - gli stessi suoi illustri fan si ritroveranno a solenni raduni per i quarant’anni dalla morte di Pasolini. Là, della «morte dell’autore», non ci si darà pace: anzi, se ne evocherà la presenza (fisica) con accanimento. Dov’era quella notte, com’era, come parlava, io me lo ricordo, tu te lo ricordi?
Una buffa contraddizione che chiarisce il tema in gioco: ci sta ancora a cuore il rapporto tra autore e opera letteraria? O ci interessa a intermittenza? Gettiamo al macero vagoni di storie letterarie che partono sempre dalla «vita dell’autore»? Sì, d’accordo, Proust e Calvino avevano la stessa allergia alle curiosità dei critici sulla loro biografia, ma siamo sicuri di non averne bisogno, per comprendere le loro opere?
Tra Barthes e Salinger
Nel ’68 caro a Ferrante, Barthes proclamava, senza lutto, la dipartita dell’autore, ma poi metteva insieme le sue fotografie private per scrivere un libro dal titolo Barthes di Roland Barthes. È davvero solo una questione di narcisismo, pubblicitaria o di pettegolezzo, il legame tra chi scrive e ciò che scrive? Che ne facciamo dell’altro romanzo in lizza per lo Strega, Come donna innamorata, dove lo studioso Marco Santagata immagina un Dante intimo, visto da molto vicino? E ancora: perché Ferrante ha raccolto nel volume La frantumaglia i surreali dialoghi a distanza con critici e giornalisti, se l’opera parla da sé?
Salinger non c’entra niente: si sottrasse completamente al mondo dopo il successo per diventare «un cittadino anonimo», smettendo di pubblicare. E odiava le interviste. Ferrante le concede anche alla Paris Review come un Philip Roth qualunque, la cui recente, celebratissima biografia passa di mano in mano nella stessa cerchia dei ferrantiani. I quali poi corrono a chiedere l’autografo a uno come Carrère, che riempie di autobiografia i suoi libri.
Non so se la «negazione del proprio statuto di autore a favore dell’opera» sia davvero un gran punto di arrivo. Il rischio - ne parlò Carla Benedetti quindici anni fa (L’ombra lunga dell’autore) - è l’azzeramento di «ogni valore differenziale dello stile e della poetica», il vanificare «l’idea stessa di un’intenzionalità artistica originale». Pensare cioè a un romanzo come a un prodotto fra gli altri: non più il frutto del talento, della cultura, dell’esperienza del mondo di un singolo e irripetibile essere umano, ma un prodotto e basta. Di una mente astratta, di un collettivo, di unafactory, di un software, non importa.
Lo scrittore ininfluente
Il nome dell’autore «assente» finisce per somigliare così a un brand. Come una marca di scarpe o di dentifricio, un logo che crea affezione. Chi sia l’autore? Ininfluente, più o meno come i nomi di chi sceneggia impeccabili, smaglianti serie tv. Eppure, la complessità, il bagliore, la sgradevolezza, talvolta l’ovvietà o la miseria di un’esistenza, della storia tutta umana che sta dietro un’opera d’arte continuano a sembrarmi ancora indispensabili. Nessuno ha mai sentito autentico trasporto - un trasporto che può cambiare la vita - verso una marca di dentifricio. Verso Franz Kafka o Virginia Woolf, sì.
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