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Marco Giusti per Dagospia
Diciamolo subito. Con questo terribile ritratto di madre frantumata dalla follia del figlio, in "... E ora parliamo di Kevin" di Lynne Ramsay, Tilda Swinton avrebbe sicuramente meritato sia di vincere il premio per la migliore interpretazione femminile a Cannes, sia di essere nominata agli Oscar.
Senza dover ricorrere a assurdi mascheroni come le superstar Glenn Close e Meryl Streep, a Tilda Swinton bastano i primi dieci minuti del film, tutti giocati sul suo volto senza trucco, per spiegarci in che razza di inferno familiare siamo capitati e per dirci che non sarà facile uscirne.
Coproduttrice esecutiva del film, assieme a Steven Sodenbergh, ci porta dritti all'origine del male nel cuore di una apparentemente normale e colta famiglia americana. Lynne Ramsay, giovane regista scozzese già responsabile di due buoni film da festival, "Ratcacher" e il più tormentato "Morvern Callar", costruisce la storia, tratta da un romanzo di Lionel Shriver, come un elaboratissimo puzzle dove è lo spettatore che deve ricostruire gli eventi che ci porteranno allo svelamento della tragedia finale.
Una tragedia che pesa già sul presente, visto che sappiamo da subito che qualcosa di terribile è accaduto alla povera Tilda Swinton, che vive sola e in totale confusione mentale. E qualcosa di ancor più terribile deve essere accaduto alla sua famiglia. Ma non sappiamo perché lei attiri su di sé l'odio di tutti i cittadini del paese dove vive né che cosa sia veramente capitato.
Anche perché i molti piani temporali sono molto mischiati e il gioco della ricostruzione non è facile da digerire per uno spettatore tradizionale. Vediamo comunque arrivarci, man mano che il film procede, squarci del passato della famiglia della Swinton, il marito buono e accomodante John C. Reilly, ormai specializzato in questi ruoli, una bambina bionda graziosa e il terribile figlio Kevin, che seguiamo da piccolissimo a teenager nei suoi comportamenti sempre più mostruosi e in aperto conflitto con la madre.
Che ha evidentemente delle colpe, forse un problema serio di non accettazione prima della gravidanza, poi della maternità , poi del suo ruolo di madre. Dove il Gus Van Sant di "Elephant" si limitava a offrirci uno sguardo freddo, oggettivo, della follia all'interno di un campus di giovani americani, senza svelare il perché delle azioni che i suoi protagonisti mettevano in scena, la Swinton e la Ramsay si gettano a cuore aperto nella costruzione di una mostruosità nata dentro una famiglia.
Film difficile, sgradevole, se si vuole anche un po' meccanico nella sua costruzione a puzzle, offre una grande occasione alla Swinton e ci rivela delle doti non indifferenti della sua regista. Vanta anche delle musiche meravigliose di Johnny Greenwood, gettonatissimo compositore di tormentati ritratti giovanili, come in "Norvegian Wood", e ormai fondamentale collaboratore di Paul Thomas Anderson, il meraviglioso "Il petroliere" e l'ancora inedito "The Master".
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