“CHIARA, TI RICORDI QUANDO HAI AMMESSO A FEDEZ CHE TI SEI SCOPATA ACHILLE LAURO?” - IL “PUPARO” DEL…
1. UNA CARICA DI RABBIA E DISPERAZIONE CHE COLPIVA AL CUORE
Mario Luzzatto Fegiz per il “Corriere della Sera”
Joe Cocker dalla fine degli anni Sessanta ha offerto una sua inquieta personalizzazione del rock. Il suo burbero e a volte volgare autocompiacimento nell’eccesso è stata la sua carta vincente ma anche la sua croce.
Egli resta nel rock un interprete imbattuto, una leggenda vocale paragonabile solo a Janis Joplin. Questo suo spirito blues, quasi soul che arriva dal nord dell’Inghilterra ha continuato ad affascinare per quella sua carica di rabbia e disperazione che colpiva al cuore come in «Feels Like Forever» scritta per lui da Bryan Adams.
È stato un interprete travolgente, da «Feelin’ Alright» dei Traffic a «Shelter Me», dalla superfamosa «You Can Leave Your Hat On» che accompagnava lo spogliarello di Kim Basinger in 9 settimane e ½ , a «Unchain My Heart».
A volte divagava, improvvisava assoli e ricami vocali di rara efficacia. Nei suoi concerti abbiamo ascoltato riletture e quasi reinvenzioni di brani incantevoli come «With a Little Help from My Friends», «You Are So Beautiful», «The Letter», «Hitchcock Railway», «Cry Me a River». Molto spesso manager di pochi scrupoli lo hanno mandato allo sbaraglio nel nostro Paese quando le sue condizioni fisiche e artistiche erano pessime. Il pubblico è stato ingannato da produzioni mediocri, amplificazioni orrende, band raffazzonate, solo per sfruttare il mito. Scherzava Cocker sulle birre che si scolava sul palco e anche su altri suoi problemi.
Al concerto tenuto a Milano nel luglio del 1972 esordì dicendo: «Non fatevi ingannare: i segni che ho sul braccio sono punture di zanzara». Hanno detto di lui che cantava la disperazione, la rabbia e l’angoscia di un uomo abbandonato in fondo a un pozzo. Con gli occhi aperti su un buio appena interrotto ogni tanto da echi di paradiso perduto. Con lui, come con Ray Charles, la disperazione cantata in blues diventava struggente spettacolo.
2. COME CONSOLARSI DALL’ADDIO DI JOE COCKER
Stefano Pistolini per “il Foglio”
Un altro pezzetto di storia del rock passa a miglior vita in coincidenza con un anno che se ne va. E’ già capitato in passato e questa volta a lasciarci senza preavviso è Joe Cocker, 70 anni, indimenticato eroe di Woodstock, dove conobbe un’immediata consacrazione più per il suo stile che per il suo repertorio, in buona parte composto da cover.
Ma la voce roca e le interpretazioni parossistiche, tra il collasso e l'estasi, lo resero un beniamino istantaneo del vecchio mondo del rock. E’ rimasto sempre lo stesso fino alla fine, il ragazzo di strada di Sheffield con una voce più grande delle sue aspirazioni. Verrà ricordato con l’amore per le cose e le persone di cui davvero sentiamo la mancanza.
3. WITH A LITTLE HELP FROM MY FRIENDS: LA CANZONE CHE FECE DI LUI UN CLASSICO
P.Neg. per “la Stampa”
«È stato pazzesco vedere tutta quella gente: siamo scesi dall’elicottero, gli strumenti erano già accordati, abbiamo suonato e via. Ma è stato bello, c’era il sole, mi è sempre piaciuto vedere il pubblico in faccia». Joe Cocker raccontava così la sua Woodstock, agosto 1969, il momento in cui divenne un classico.
La canzone era With a Little Help From My Friends, i Beatles l’avevano pubblicata due anni prima ed era quasi uno scherzo: la cantava Ringo Starr, il più stonato dei quattro («Ma ce la posso fare, con un piccolo aiuto dagli amici»).
Cocker la rallentò fino a un tempo di 6/8, cambiò in parte le armonie e vi aggiunse un’introduzione organistica. La voce fece il resto. In pratica, la riscrisse: «Bastava grattare la superficie per capire quanto fosse profonda quella canzone - dirà poi - e quanta tristezza avesse dentro». Quando uscì il disco, John Lennon e Paul McCartney gli spedirono un telegramma: «Grazie. Sei troppo per noi».
4. YOU CAN LEAVE YOUT HAT ON: L’INNO DELLA SENSUALITÀ ANNI OTTANTA
P.Neg. per “la Stampa”
Randy Newman l’aveva scritta nel 1972, ma era passata quasi inosservata, forse perché faceva parte di un album meraviglioso, Sail Away, uno di quei titoli che si citano quando si fanno le liste dei dischi memorabili. Quando gli chiesero di cosa parlava quella canzone, Newman rispose: «Di sesso» (in realtà fu ancora più esplicito) ma forse nessuno se ne accorse per davvero fino al 1986, quando Joe Cocker la fece sua. Nel film Nove settimane e mezzo Mickey Rourke la suona con un compact disc e Kim Basinger improvvisa uno strip-tease seminascosta da una veneziana.
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Una scena che chi vide allora non scordò mai più e che rilanciò la carriera di Joe Cocker in tutto il mondo. Gli era bastato cantarla spostando qualche accento e aggiungervi i fiati. La sua voce ancora una volta aveva fatto la magia, e il canto ironico e un po’ strambo di un intellettuale eccitato divenne l’inno della sensualità degli Anni Ottanta, il decennio della superficie.
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