
DAGOREPORT – GIORGIA MELONI NON AVEVA ALCUNA VOGLIA DI VOLARE A PARIGI AL VERTICE ORGANIZZATO DA…
Antonio Gnoli per “la Repubblica”
Davanti a un piatto di pasta alle vongole, sopra uno dei vertici della bellezza napoletana — che è poi Posillipo nel declivio di case confuse nel verde ramarro — Mimmo Jodice si accarezza la barba. Guarda me. Guarda gli spaghetti. Guarda la moglie Angela. Dove poserà lo sguardo, mi chiedo. Se avessi una macchina fotografica mi verrebbe voglia di fissare l’istante in cui tutto, camerieri compresi, apparirà improvvisamente immobile. Come se il tempo, reduce da una lunga e faticosa camminata, avesse deciso di fermarsi. «Ecco, dice Mimmo, quando si fotografa bisogna sapere fermare il tempo, senza che lui se ne accorga. Altrimenti si vendica. E distrugge quello che fai».
Nell’ultimo scampolo di una lunga conversazione avvenuta nella casa dell’artista, sono preda di uno strano contrasto: si può ancora parlare di bellezza, in un mondo che ha fatto di tutto per cancellarla? Lo chiedo al fotografo, all’uomo che mi è davanti, nella natura gradevole e addomesticata che ci circonda. Jodice mi guarda perplesso, è come se racchiudesse in ultimo sforzo l’idea di dover continuare a parlare di sé: «Il mio lavoro è progettare nella mente, realizzare nello scatto e infine stampare in altissima qualità. Il resto non conta, o se conta è trascurabile».
Non conta neppure la bellezza?
«Non ho nessuna nozione credibile della bellezza. È l’ultimo dei miei problemi conoscere una cosa perché è bella. La finalità del mio lavoro è l’intensità. È da questa che scaturisce l’emozione. Non conosco altre strade sincere».
Quando ha deciso di dedicarsi interamente alla fotografia?
«Quando scoprii che la pittura non mi bastava. Amavo De Chirico, Magritte, il surrealismo. Mi affascinavano quei mondi. Da bambino, nella piccola libreria di mio padre sfogliavo con una certa emozione i libri d’arte. In quegli anni napoletani era per me il solo modo di accostarmi alla cultura».
Dove è nato?
Mimmo Jodice Pierfrancesco Agnese
«Sono nato nel Rione Sanità. Ci sono rimasto fino a 27 anni quando mi sono sposato. La mia è stata un’infanzia difficile, complessa, grama. Mio padre morì che avevo cinque anni. Mia madre, vedova con quattro figli, fece sforzi sovrumani per darci un futuro accettabile ».
Che cosa ricorda del suo quartiere di allora?
«Mi vengono in mente immagini totalmente sparite. Non c’erano automobili. La mattina i carretti portavano gli ortaggi. Nei vicoli si svolgeva la vita. Calzolai, sarti, merlettai, pizzaioli svolgevano il loro lavoro. Durante le feste sacre c’erano i rituali. Perfino i femminielli avevano un ruolo».
Come reagiva la gente alla loro presenza?
«Qui a Napoli il popolo li rispettava, perché erano parte integrante. Abitavo non lontano dall’Ospedale di San Gennaro. Loro venivano sulla piazza. Vociando, danzando, ridendo. Con un gesso disegnavano un grande quadrato in terra. Era il loro palcoscenico. La recita toccava punte esilaranti. Quel mondo di provocazione e ambiguità si iscriveva perfettamente nel mondo più grande dei rituali popolari».
Fu uno dei suoi libri di esordio.
«Con un giovanissimo Roberto De Simone girammo per tutta la Campania. Lui registrava le musiche, io fotografavo. Poi, Carlo Levi seppe di questo lavoro e ci invitò a fare la stessa cosa in Lucania, nei luoghi dove era stato al confino durante il fascismo. Nel 1974 ci dedicò una poesia bellissima e struggente che iniziava così:
“Dov’è San Gennaro? Non c’è più San Gennaro. Non c’è più il fuoco. Non c’è più il sangue, non c’è più riparo a un mondo che langue...” E io pensai che il solo modo di preservare tutto questo spettasse alla fotografia ».
Le basta che la foto sia testimonianza di qualcosa o di qualcuno?
«Ovviamente no. Quello fu un periodo, per un ragazzo che era uscito dalla guerra, trascorso nella tradizione e nel rispetto dei volti. Ma al tempo stesso sapevo che la fotografia era invenzione. Nell’opinione corrente la fotografia era fedeltà alla realtà. Aspiravo a fare esattamente il contrario. Il reale, per me, doveva irrompere nell’artificio. Fu così che iniziai a sperimentare. Eravamo alla fine degli anni Sessanta».
Cosa le dà fastidio della realtà?
«Mi sento estraneo a tutto quello che mi circonda».
Per un fotografo è abbastanza improprio.
«No, perché? Le nostre vite reagiscono alla realtà provando gioia o patimento. Io ho bisogno di una dimensione senza tempo. Perciò cerco di eliminare gran parte delle cose che vedo. Togliere è per me un imperativo. Devo rimuovere tutto ciò che non mi appartiene. E che è in qualche modo corruttibile».
Mi faccia capire meglio.
«Due soggetti che mi hanno particolarmente attratto sono il mare e il mondo antico. Quest’ultimo mi ha permesso di dar vita alle mie foto archeologiche. Che non sono le belle sculture, i bei capitelli, ma luoghi vivi. Non memoria del passato, ma passato che irrompe nel presente».
Come può irrompere una cosa inerte?
«Può farlo se la si pensa viva. La gente di duemila anni fa aveva i nostri stessi desideri, la nostra violenza, il nostro bisogno d’amore. Certo, i costumi erano diversi. Ma nell’immagine che strappi da un mondo remoto devi trovare l’assoluto. È così anche per il mare, che non è la bella costa, il paesaggio, ma la linea d’orizzonte tra l’acqua e il cielo. Mentalmente è sapere che oltre l’orizzonte, c’è ancora l’orizzonte».
Quanto tempo impiega per fare una foto?
«Spesso delle ore. A volte perfino giorni. Quando hai l’impressione che l’immagine stia per sparire, quello è il momento».
È un’esperienza soprattutto interiore.
«Confesso di fare molta fatica a adeguarmi alla realtà. Il che non significa che non goda delle cose, che non vada al cinema, che non legga o che non incontri amici. Ma quando fotografo so che devo dimenticare tutto questo».
Ci riesce sempre?
«Non è una questione di volontà. Ho anche fatto foto politiche e sociali. Era sul finire degli anni Sessanta. Mi piaceva la turbolenza che allora si percepiva. Poi a Napoli arrivò una giunta di sinistra e io pensai: finalmente faremo grandi cose. Ma non accadde nulla. E compresi che anche la speranza era venuta meno. In quel momento cambiò tutto».
Come pensò di raccontare questo cambiamento?
«Volevo testimoniare la mia grande delusione e il solo modo era raccontare una città vuota e morta. Feci un lavoro fotografico alludendo a una città fantasma, senza volto. Ricordo che cominciai a fotografare le sculture di spalle. E poi le piazze vuote; le vie deserte. Scuotevo la testa. Felice e rabbioso per tanta ostilità. Il tempo divenne una categoria insignificante».
Il pensiero corre al suo De Chirico.
«La sua pittura è stata fondamentale per lasciare fuori ogni velleità sociale e antropologica. Quella pista metafisica mi ha poi portato a scoprire gli artisti che nei primi anni Settanta passavano dalla galleria di Lucio Amelio. Il mio studio non era distante. Era il periodo della Land Art e della Body Art. Da Amelio passavano Pino Pascali, Vettor Pisani, Kounellis, Giulio Paolini e Vito Acconci, un artista della Body Art. Venne da me un giorno per un ritratto».
Cosa accadde?
«Preparai la macchina fotografica e lui si tolse la giacca, poi la camicia, si sfilò i pantaloni e infine le mutande. Restò nudo. Imbarazzato non sapevo che fare. Prese un pennarello e cominciò a scrivere delle frasi sulla fronte, poi sul petto, tra le cosce. A quel punto scattai.
Dopo di che si rivestì, salutò e se ne andò. Rimasi lì come un cretino. Questa era l’arte: qualcosa di incredibilmente spiazzante. Acconci era nato a New York. Molto prima di Marina Abramovic scoprì l’uso del corpo: la fisicità, il gesto, la provocazione».
Ha evocato la figura di Lucio Amelio.
«Fondamentale per Napoli e oltre Napoli. Non era un semplice gallerista, era un piccolo universo di genialità portatile. Fu lui che nel 1980 fece conoscere Joseph Beuys e Andy Warhol. Li fotografai a Piazza dei Martiri. Accanto al leone di pietra. Warhol aveva messo una mano nelle fauci e Beuys con un pennarello aveva stilizzato un cappello in mezzo alla criniera».
Ha avuto modo di frequentarli?
«Sì, del resto ero piuttosto famoso a New York, le mie mostre avevano raccolto consenso tra pubblico e critica. Entrambi vennero nel mio studio. Con Warhol una mattina ci recammo in un mercato. Eravamo nella parte vecchia della città. Andy sembrava una donnetta che si aggirava nei vicoli.
La gente lo guardava incuriosita. Alla fine ci fermammo davanti a un banco e lui comprò dei fichi secchi. Per un attimo pensai che quel frutto un po’ gommoso somigliasse alla sua faccia. Ci siamo rivisti altre volte a New York. Parlava pochissimo il che era un sollievo per uno come me».
E Beuys?
«Venne in studio da me. Vide su un tavolo una serie di fotografie che avevo realizzato su Gibellina dopo il terremoto del 1968. Beuys le guardò e mi chiese che cosa fossero. Gli dissi che avevo provato a raccontare un paese che non c’era più, con gli abitanti finiti in una baraccopoli. Rispose che voleva assolutamente vedere quel posto. Chiamai il sindaco, Ludovico Corrao, che ci venne a prendere a Palermo. Ci condusse nel vecchio paese abbandonato e ci lasciò soli per tutta la mattinata».
Che cosa cercava Beuys?
«Credo fosse colpito dalla forza della distruzione e dalle opere che gli artisti avevano inserito. I suoi occhi azzurri guardavano intorno. A volte si chinava per raccogliere frammenti di pietra. Prendeva di tanto in tanto degli appunti. Lo fotografai a più riprese. Con il cappello di feltro e il lungo paltò aperto, da cui si intravedeva il gilè, camminava con l’aria assorta. Per tutto il giorno restò muto. E rispettai quel silenzio».
Cos’è per lei il silenzio?
«Nella fotografia è l’immagine che ti assale quando meno te l’aspetti. Questa sensazione l’ho provata con Ugo Mulas e Luigi Ghirri. Ma anche con i lavori di Josef Koudelka e Diana Airbus. Ho amato Dorothea Lange. La vera grandezza penso non abbia generi. Non conosce il confine della convenzione. Si crea, si distrugge, si fallisce, o si riesce. E magari non sappiamo darci nessuna spiegazione plausibile».
Gli artisti sono complicati?
«È raro che non lo siano. Troppe pressioni si scatenano dall’interno. Che possono rendere un artista, un grande artista, un uomo intrattabile ».
Ne ha conosciuti?
«Sì, sono capaci di rendere la vita dura a sé e agli altri. Le racconto un episodio. Luca De Filippo venne da me a fare un po’ di pratica. Amava la fotografia. Era un carattere dolce e riservato. Un giorno mi disse: perché non viene a fare qualche foto a papà?».
Papà era Eduardo.
«Lui. Fu un episodio surreale quello che si realizzò. Mi ricordo che Luca mi fece accompagnare fin sotto il proscenio dove Eduardo recitava. Scattai alcune foto con una Leica silenziosa. Nonostante ciò, l’attore si sentì disturbato. Mi lanciò uno sguardo che avrebbe sciolto un blocco di ghiaccio. Finito lo spettacolo uscimmo. Luca si avvicinò e mi disse: il direttore la vuole vedere. Il direttore chi? Chiesi. De Filippo, precisò. Andammo nel camerino con Luca e la maschera che mi aveva accompagnato sotto il palco.
Anselm Kiefer tra Heiner e Celine Bastian Mimmo e Angela Jodice
Eduardo voleva licenziarli entrambi. Con la voce sorda, arrugginita, profonda bofonchiò qualcosa che non compresi. Ma il senso era chiaro: non vi azzardate più. A me e a mia moglie riservò solo un’occhiata di compatimento. Questo non dico che fosse Eduardo. Ma gli somigliava tantissimo. La vecchiaia non l’aveva addolcito».
E la sua vecchiaia?
«La mia si fonda sulla memoria di ciò che è accaduto. Il passato è fondamentale ma va affrontato senza enfasi né retorica. Il passato è sempre un eccesso di cose e di sensazioni. Non puoi dedurlo dalla mente. Bussa alla tua porta. E quando apri non sai mai chi in quel momento avrai di fronte».
DAGOREPORT – GIORGIA MELONI NON AVEVA ALCUNA VOGLIA DI VOLARE A PARIGI AL VERTICE ORGANIZZATO DA…
L'ANGOLO DEL BUONUMORE – OGGI IL "CORRIERE" VERGA UN ARTICOLO SURREALE, IN CUI SCOPRIAMO CHE “IL…
DAGOREPORT - SE IN FORZA ITALIA IL MALCONTENTO SI TAGLIA A FETTE, L’IRRITAZIONE DI MARINA E PIER…
DAGOREPORT - SERVIZI E SERVIZIETTI: IL CASO ALMASRI E' UN “ATTACCO POLITICO” ALLA TRUMPIANA MELONI?…
DAGOREPORT – IN UN MESE, TRUMP HA MACIULLATO L’ORDINE MONDIALE: RIABILITATO PUTIN, ISOLATA LA CINA…
SANREMO DIVENTA UN TALENT SHOW? LA SALA STAMPA RIBOLLE, SI SENTE DEFRAUDATA DEL POTERE DECISIONALE…