Estratto dell’articolo di Marzia Zamattio per il “Corriere della Sera”
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«Da sette anni la nostra vita è un inferno, da quando nostro figlio è in stato vegetativo, ma continuiamo a combattere perché tragedie simili non devono ripetersi».
È un dramma infinito quello raccontato da papà Gian Battista Maestri, geometra di 49 anni, iniziato il 5 giugno 2017 quando il figlio, Mattia di 4 anni, mangia il formaggio prodotto con latte crudo Due Laghi del caseificio sociale di Coredo, in Val di Non, contaminato da escherichia coli e contrae la Seu.
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La corsa all’ospedale di Cles, poi al Santa Chiara di Trento, dove arriva in condizioni gravissime ma la pediatra si rifiuta di valutare il suo caso perché «troppo stanca». La dottoressa è stata rinviata a giudizio per lesioni e rifiuto di atti d’ufficio. A dicembre, l’ex presidente del caseificio Lorenzo Biasi e il casaro Gianluca Fornasari sono stati condannati per lesioni gravissime dal giudice di pace a una multa di soli 2.478 euro.
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Maestri, state combattendo due battaglie assistiti dai vostri legali Paolo Chiariello e Monica Capello: come vi sentite dopo il rinvio a giudizio della pediatra?
«Una grande soddisfazione per me e mia moglie Ivana. È una battaglia civica: quella dottoressa dovrebbe cambiare lavoro, invece si trova ancora al suo posto in ospedale».
La Procura sostiene che il rifiuto ha causato un ritardo nella diagnosi della malattia, la Seu, scoperta tre giorni dopo, siete arrabbiati?
«Certo, c’è molta rabbia verso la dottoressa, quei tre giorni sono stati importanti, ma la colpa principale rimane del caseificio, se mio figlio non avesse mangiato quel formaggio starebbe bene. Eppure era un prodotto consigliato proprio per la merenda dei bambini».
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Cosa ricorda di quel giorno?
«Mio figlio dopo aver mangiato il formaggio — ne era ghiotto — si è sentito subito male, siamo corsi prima all’ospedale di Cles dove l’hanno tenuto in osservazione, poi visto l’aggravarsi della situazione l’hanno trasferito a Trento. Al pronto soccorso pediatrico, la dottoressa che lo visitava ha chiesto un consulto alla pediatra, che però le ha risposto: non adesso, sono stanca è tutto il giorno che corro. L’abbiamo sentita noi».
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Poi cosa è successo?
«La dottoressa, una chirurga, a quel punto l’ha portato nel suo reparto dove è stato operato di appendicite, in quelle condizioni, ma non si trattava di quello. Se la pediatra l’avesse visitato, almeno non l’avrebbero operato e magari non sarebbe peggiorato».
Invece.
«Invece, è entrato in coma ed è stato ricoverato per un mese in terapia intensiva all’ospedale di Padova e per un anno in una clinica riabilitativa a Conegliano, dove ci hanno potuto solo insegnare come gestirlo a casa, ormai era in uno stato vegetativo insanabile. Mia moglie si è licenziata e da quel momento lo gestisce giorno e notte: 47 farmaci al giorno, uno ogni ora e mezza».
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Cosa intende?
«Dopo questa tragedia, al caseificio sociale di Coredo è stato conferito il marchio di qualità per un prodotto, un riconoscimento che ci indigna […] ».