LA NAPOLI DI DE MAGISTRIS BALLA IL CLAN CLAN - TRA IL 2012 E IL 2013, 900 NEGOZI IN CITTÀ HANNO CHIUSO A CAUSA DELLA MORSA DELLA CAMORRA

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Goffredo Buccini per ‘Il Corriere della Sera'

La mamme minacciarono le mamme. Maria ed Anna Aieta, mogli di Edoardo Contini e Ciccio Mallardo, nobiltà camorrista, andarono dalla moglie di Salvatore Vinciguerra: «Accumminciamm' d'e piccirill'», cominciamo dai bambini, le dissero. Così gli affari e la dignità dei Vinciguerra, commercianti di vestiti tra Poggioreale e il Vomero sin dagli anni Cinquanta, iniziarono a morire: via un negozio, poi una casa, otto anni in mano al clan, da padroni a servitori, sotto interessi usurai del 120 per cento. Fino alla rovina, al coraggio di denunciare, alla disperazione di scappare dalla città.

«Questa gente è il nostro tumore», ha messo a verbale Nicola Vinciguerra, il capostipite, davanti ai magistrati che hanno scritto l'ordinanza contro il clan Contini, 90 arresti a fine gennaio. Andrebbe studiata nelle scuole la storia di famiglia del vecchio Nicola: perché descrive nei dettagli la sostituzione dell'economia legale con quella illegale, causa ed effetto del disastro napoletano.

Alla Confcommercio di piazza Carità purtroppo allargano le braccia, in piena amnesia: «Vinciguerra? Non mi pare che stesse a Napoli città», ci dice Luigi Di Raffaele, pur cortese e prodigo di dati preziosi: 890 sono i negozi napoletani «morti» tra il 2012 e il 2013, con molti marchi storici perduti. L'associazione tende a spostare il male in provincia: Torre Annunziata, Castellammare e simili paradisi.

«Qui va meglio, non ci rovini l'immagine», sospira il presidente, Pietro Russo, che ce l'ha con la stampa: «Pure Caserta la fate diventare Napoli», dice, alludendo alla nera epopea di Nicola Cosentino. Comprensibile. «Be', abbiamo più slot di Las Vegas ma ce puzzamm ‘e famm', moriamo di fame. Almeno i mafiosi la costruirono, Las Vegas! I nostri camorristi manco hanno la visione»: Russo alla fine è uomo di spirito.

La relazione del Comitato sull'ordine e la sicurezza del 31 marzo coglie il nodo: «È il riciclaggio l'attività preponderante». La camorra si prende «bar, ristoranti, imprese edili, pompe funebri, panifici... e impone i propri prodotti agli altri commercianti: caffè, farina, calcestruzzo». Persino gli addobbi di Natale. Lo chiamano «mercato parallelo»: il clan «affida» partite di merce al negoziante e poi piglia l'intero guadagno.

La Dia sottolinea «una persistente anomalia nel sistema d'impresa napoletano: cresce in modo smisurato il numero delle imprese non classificate, prive cioè del codice di classificazione di attività economica, in quanto di fatto non aprono, non producono, non creano posti di lavoro. Scatole vuote, funzionali a celare attività illecite e produrre false fatturazioni».

Antonio, uno dei proprietari di «Ciro a Santa Brigida», lo spiega in stile Bellavista: «Io l'ho sempre detto ai finanzieri. Statevi accorti non ai clienti senza scontrino, ma agli scontrini senza cliente!». La camorra imprenditrice coi suoi soldi a costo zero è rivale imbattibile, specie in tempi di crisi del credito e affitti in risalita: una sola piazza di spaccio del clan Di Lauro fruttava un milione di euro al mese (e le piazze erano una ventina). Bankitalia ha un dato terribile sulla Campania: «Tra il 2008 e il 2012 sono uscite dal mercato circa 8.400 imprese l'anno».

Il male sta qui, e può essere letale se poi si incrocia con 86 clan e quattromila affiliati, venti rapine al giorno (girare con un iPhone è pericoloso), strade sporche e dissestate, saracinesche abbassate anche nella storica Galleria (quattro chiusure recenti). Il male sta qui, anche se a volte è agevolato dal malato: Salvatore Vinciguerra, uno dei fratelli del vecchio Nicola, aprì lui stesso la porta ai Contini, «così nessuno poteva chiederci il pizzo».

«Gli imprenditori non hanno politici con cui parlare, a Napoli i politici non esistono più», sostiene Antonio Bassolino che, risolte le grane giudiziarie e avendo sul capo solo (gravi) responsabilità storiche, sta diventando una specie di coscienza critica di se stesso e dei suoi concittadini: «La città vive una crisi di ruolo senza precedenti, ci si scanna sul San Carlo, i cinesi scappano dal porto dopo il sangue che avevamo buttato per portarceli».

La distanza tra città reale e politica s'allarga. Sia il governatore Caldoro che il sindaco de Magistris sono alle prese con il tentativo di raddrizzare i conti: entrambi parlano con toni trionfalistici senza cogliere questo distacco. «Il dieci per cento dei ragazzi fugge all'estero a studiare, in termini di élite è un'emorragia esiziale», dice Mauro Calise, politologo della Federico II.

Gigi de Magistris sta vivendo la sua seconda chance per evitare il dissesto. Ha ammesso col Corriere del Mezzogiorno che quando vagheggiava una raccolta differenziata al 70 per cento era esaltato e in campagna elettorale (motivazione che a Berlusconi varrebbe la lapidazione). Prova a vendere le partecipate, buco nero dei conti comunali (ma il suo vecchio assessore ripudiato, Riccardo Realfonzo, ridacchia: troppe perdite, chi se le compra?).

«Questa è una città viva», giura il sindaco, gongolando per il successo della coppa Davis: «I napoletani delusi da me? Le aspettative erano altissime, se pigli Maradona non tolleri una giocata sbagliata». Più sobrio Stefano Caldoro, che rivendica successi di bilancio importanti sulla Sanità (ma a prezzo di tagli e tasse), investimenti record (ma purtroppo i livelli di disoccupazione restano altissimi).

Caldoro non è un politico «di popolo» però si andava conquistando una preziosa etichetta di affidabilità. L'etichetta rischia di essere stracciata da un'inchiesta nata sul suo capo-staff e alter ego Sandro Santangelo: truffa e riciclaggio. «Nessun fastidio, chi fa politica deve stare sotto scrutinio», dice lui, pacato. In realtà il politico più potente oggi è, incarcerato Cosentino, il suo ex sodale Gigino Cesaro, assolto in giovinezza dall'accusa di essere vicino a Cutolo con una insufficienza di prove e un «quadro probatorio non tranquillizzante». «Il nostro problema non sono i boss, sono le istituzioni che ne hanno emulato il metodo», tuona Lina Lucci, tostissima leader della Cisl. Cesaro è sponsor di Riccardo Villari alla presidenza del porto. Villari è un medico, come Massidda a Cagliari.
Quando il Consiglio di Stato ha stabilito che forse la medicina non è la massima competenza per gestire un porto, Massidda è caduto, Villari è stato bloccato. «È strumentale sostenere che, mancando il presidente, il porto non funzioni», smorza Caldoro, che quando si tornerà a votare non potrà prescindere da Cesaro. I partiti stanno affinando disegni di legge per aggirare la sentenza. Ovvio: il porto sarebbe la più grande azienda campana, vanta 26 milioni di crediti, ma non li incassa; la riqualificazione vale un miliardo.

Il candidato tecnico era Dario Scalella, manager puro, che ha già ripulito i conti di Napoli Servizi per de Magistris. Veti incrociati lo hanno affondato; siamo a due anni di impasse. Il prefetto Musolino ha avuto una bella idea: manda carabinieri e poliziotti nelle scuole a raccontare storie di camorristi finiti male. Tema: «Fare il camorrista non conviene». Quando si potrà passare al tema «Fare la persona perbene conviene», Napoli avrà iniziato a guarire dal tumore .

 

Napoli Golfo NapoliNapolide laurentiis de magistris jpegcamorraNICOLA COSENTINO ALLA CONFERENZA STAMPARICCARDO REALFONZO Antonio Bassolino e moglie MARCELLO TAGLIALATELA E STEFANO CALDORO Riccardo Villari