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2. BUON NATALE DOPO GLI INSULTI ARRIVA L’ORA DELLA TREGUA
Filippo Ceccarelli per “la Repubblica”
«Buon Natale di cuore a tutti noi» si congeda il segretario- presidente Renzi e se da una parte suonava come un augurio gentile, cosa abbastanza rara per quel genere di leadership, dall’altra era il segno che l’Assemblea del Pd finiva inesorabilmente a panettone e spumante.
L’inedito e premuroso congedo è calato sulla vaporosa moquette dell’hotel Parco dei Principi, tra damaschi, palmette e stucchi marini, peccato solo che la sala non fosse addobbata per le feste, il Partito del Buon Natale è insieme una necessità e una scorciatoia perché poteva anche essere un cattivo Natale, invece niente. Niente scissione, niente dissoluzione, facciamo passare le feste, poi si vedrà.
All’inizio hanno messo «Fratelli d’Italia». Per non far rimpiangere «la ditta» Renzi ha esordito: «Se fossimo un consiglio d’amministrazione... ». Camicia bianca, ormai più uniforme che costume di scena, comunque segno di distinzione. I dirigenti indicati per nome: Sergio, Stefano, Luciano, là dove l’intimismo confina con l’auto- referenzialità del giro stretto. Quindi delineato il palinsesto di giornata, le bandierine di Emilio Fede, i forconi a “Chi l’ha visto?”. Fuori misura la excusatio di genere, «non potevamo mandare Gentiloni a Casablanca», esempio di ilare berlusconismo senza Berlusconi. Prevedibile che l’Italia sia un grande paese, mentre i gufi (sempre meno gettonati) ne vedono solo le sfighe.
Il solito Renzi, forse troppo «solito », nel senso che comincia a ripetersi. Le stesse immagini (il cantiere e i criticoni), il consueto storytelling («tu operaio», «tu famiglia di Piombino»), l’abituale trucchetto delle auto-obiezioni («Ma come, Matteo?»), per il resto il giovane premier fa le facce, fa le imitazioni (ieri ha masticato per finta gomma americana), fa le smorfiette, fa le pause e poi insegue con lo sguardo le preziose parole appena pronunciate. Insuperabile nel dar corpo all’evanescenza e a darci dentro con i superlativi, «il più straordinario».
Napolitano è stato convenientemente salutato. D’Alema non è venuto, per oltraggio. Bersani nemmeno, ma perché aveva il mal di schiena. Bindi è arrivata dopo. D’Attorre è stato diplomatico, Cuperlo molto forbito, Fassina agitatello, rosso in volto, però efficace. Civati non ha preso proprio la parola. Nel complesso è venuto fuori che Renzi è parecchio più bravo dei suoi avversari, i quali si pedinano per scavalcarsi l’un l’altro. Il guaio vero, però, è che Matteo, per dirla malamente, è troppo meglio del suo partito. Ma talmente troppo che viene quasi da chiedersi se serve davvero, un Pd come questo, o se al contrario Buon Natale e buone feste.
Certo che a sentirsi 35 interventi - con le dovute eccezioni - si resta abbastanza delusi dalla mancanza di fantasia lessicale (il passaggio sempre «delicato», la crisi «drammatica», la fase «difficile »), oltre che da una sintomatica clonazione pappagallesca, per cui Renzi dice «non andrò col cappello in mano», o «basta guardarsi l’ombelico», e molti se la rigiocano.
A una diffusa povertà propositiva (si salva l’architetto Boeri), forse inevitabile in un partito dove decise uno solo, corrisponde il fatto che tutti invocano il leader «Matteo!», «Matteo!» - come una sorta di Deus ex Machina; ma più ieri lo invocavano, più lui sembrava perso nei suoi dispositivi elettronici; solo quando Gad Lerner l’ha contestato per l’assimilazione tra il lancio di uova e le crêpes, Renzi si è ridestato, con flebili proteste.
Questa assemblea non si doveva tenere qui, ma a Reggio Calabria. Poi siccome quella città era lontana e scomoda gli improvvidi organizzatori l’avevano ambientata nel Salone delle fontane dell’Eur, dove senza troppi filtri s’erano raccolti i soldi degli imprenditori e avevano proiettato sul travertino le luminarie bianche rosse e verdi del Partito della Nazione. Ma poi quello s’è rivelato un postaccio, per via degli imbroglioni del mondo di mezzo, e allora in fretta e furia hanno trasferito l’assemblea ai confini dei Parioli.
Qui, anche in vista del Natale, il Pd ha mostrato di non voler far penitenza, solo un po’ d’autocritica per i maneggi capitolini: brogli, forzature, rom in fila per le primarie, candidati ricconi e tirchi, circoli poverissimi. Eppure l’intervento di Cristina Alicata, che invano aveva denunciato solo una piccola parte di quel malcostume, è stato fra i pochissimi che meritavano ascolto. Lei era anche emozionata, forse perché pochi di quelli che l’ascoltavano allora le hanno rivolto una buona parola.
Quasi più interessanti le cose non-dette di quelle stra-dette. Sul caso straordinario del sindaco Marino, prima votato, poi rigettato, poi resuscitato, non si è avuto il bene di ascoltare una sola parola. E dopo ben cinque ore, grazie al compagno Verducci, è risuonata l’espressione «patto del Nazareno ».
I giornalisti non potevano girare. Solo televisori in sala stampa e inutile gabbia deserta in fondo alla platea. Regia piuttosto disattenta: le riprese restituivano volti sconosciuti, qualche selfie, sedie vuote, penombra e noia riscattata dal tòctòc della presidenza per sollecitare la chiusura dei cinque minuti (ma i notabili sforavano). A tratti è parso di sentire voci nel deserto, anche da parte di quelli che s’erano preparati la trovatella a effetto. Speranza e le lacrime dei deputati in commissione Affari costituzionali; Andrea Romano e il caciocavallo di Labriola; Epifani e l’obelisco di San Pietro; quando Gennaro Migliore ha evocato la conferenza di Lima si è interrotto l’audio.
Nella replica Renzi, davvero in vena di bontà, ha inteso «ringraziare con un sorriso», dopo di che si è trovato a fluttuare tra don Milani e Valerio Scanu, l’inusitato kairòs e l’immancabile sogno. Comunque buon Natale.
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