RIUSCIRÀ SALVINI A RITROVARE LA FORTUNA POLITICA MISTERIOSAMENTE SCOMPARSA? PER NON PERDERE LA…
Ilario Lombardo per “la Stampa”
NICOLA ZINGARETTI E GIUSEPPE CONTE
È appena passata l'ora di pranzo quando sullo smartphone di Nicola Zingaretti appare il nome di Giuseppe Conte. I due devono chiarirsi ed è meglio farlo subito, prima che la giornata sfugga di mano. In mattinata il leader Pd era stato quasi brutale verso il premier, ammonito per aver ridotto a una battuta la questione lacerante del Mes.
Non ha voglia di ulteriori incomprensioni, Conte, non nel bel mezzo di una pandemia e così si mette d'accordo con Zingaretti sull'annuncio che avrebbe dato qualche ora dopo, in serata, durante la conferenza stampa sulla manovra: un patto di legislatura da siglare a un tavolo di maggioranza dopo che i 5 Stelle avranno fatto i conti con le proprie pulsioni autodistruttive agli Stati Generali del 7-8 novembre.
Il presidente del Consiglio non cambia idea sul fondo salva-Stati e lo conferma a Zingaretti. Anzi, i toni questa volta molto più netti della chiusura sul Mes servono a Conte per mettere a tacere chi, sia in maggioranza sia all'opposizione, lo accusa di rimanere volutamente ambiguo.
BASTA RINVII
La lite sul fondo e sul mancato coinvolgimento del Parlamento si trasforma così nell'occasione per non rimandare più un appuntamento già dettagliato cinque giorni fa, prima che il Covid si riprendesse completamente la scena della politica italiana.
Zingaretti e Conte erano già d'accordo sulla necessità di vedersi, confrontarsi e riscrivere il patto che ha dato vita alla coalizione, ma sulla base di un metodo nuovo e di nuove proposte: «È opportuno che ci sia questo confronto nella maggioranza per definire un patto di qui alla fine della legislatura - dice il premier - M5s ha già fissato gli Stati generali tra qualche giorno ed è giusto offrire prima al M5s la possibilità di definire questo passaggio.
A meno che il Movimento non voglia anticipare (il confronto, ndr)». Da fonti grilline non viene escluso che possa accadere ma per adesso il capo politico Vito Crimi non prende in considerazione la cosa. Certamente, per il premier e gli alleati ha un senso aspettare che il M5s risolva la sua crisi interna. Perché solo così si capirà chi sarà l'interlocutore, e se sarà ancora Luigi Di Maio, riconosciuto da un sondaggio tra gli elettori 5S ancora come il leader più probabile.
L'idea di darsi un orizzonte con un'agenda condivisa fino al 2023 era stata rilanciata per primo da Matteo Renzi, il più scalpitante nelle fasi meno drammatiche della pandemia. Affossare il voto ai diciottenni per il Senato, la scorsa settimana, è stata la sua prova di forza. Un messaggio che è arrivato chiaro al Pd, stufo di procedere zoppicando tra le mine lasciate dagli alleati di maggioranza a ogni provvedimento.
RIMPASTO E PROGRAMMA
Nessuno la vuole chiamare verifica, perché è un termine che evoca subito l'altro ancora più insidioso del rimpasto, ma il vertice, agli occhi di Zingaretti, serve a fissare un programma di 10-20 punti per i prossimi tre anni. Alcuni temi uniscono, altri, come il Mes e lo ius soli, dividono la maggioranza. Ci sono i programmi del Recovery fund, le leggi da fare su parità di genere, salario minimo e riforma fiscale. Il menù è ricco e va trovata una sintesi. Di certo, il leader dem non vuole più vedere estenuanti balletti di mesi per accordi già impacchettati, come è successo per la legge elettorale (con Renzi) e per i decreti sicurezza (con i grillini). «Il patto servirà a cambiare l'Italia, a dare una visione, ad avere sicurezza» spiega Zingaretti, e sarà utile anche «a rafforzare il premier».
Litigare su tutto o non condividere gli annunci sta slabbrando la maggioranza. Sempre che qualcuno non abbia questo obbiettivo e voglia sfruttare l'apertura di un confronto sui temi per scatenare una resa dei conti su nomi e posti. Tranne i renziani, nessuno osa chiamarlo come va chiamato: rimpasto.
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