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Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera”
Timothy Love e Lawrence Ysunza si erano visti respingere più volte il riconoscimento della loro unione gay pur avendo vissuto insieme a Louisville, in Missouri, per più di 33 anni. Il loro ricorso e quello di altre quattordici coppie che vivono in Stati nei quali i matrimoni omosessuali sono illegali ( Michigan, Ohio e Tennessee, oltre al Kentucky) apre ora la strada a una svolta storica per gli Stati Uniti: la Corte Suprema ha, infatti, accettato di pronunciarsi sull’esistenza di un diritto costituzionale per persone dello stesso sesso a contrarre matrimonio.
Se i nove giudici della più altra magistratura degli Usa decideranno per il sì, come tutti i loro recenti pronunciamenti in questo campo lasciano prevedere, le nozze gay, che già oggi vengono celebrate in ben 36 Stati americani, diventeranno legali in tutto il Paese: nessuno Stato potrà più opporsi perché non ci sarà la possibilità di legiferare in modo difforme rispetto al precetto costituzionale.
Il percorso è ancora lungo: la Corte ascolterà ad aprile gli argomenti delle parti e ha stabilito che questi «hearing» saranno particolarmente lunghi, proprio a sottolineare la complessità e la delicatezza della materia. Poi le decisioni che verranno prese entro la fine di giugno. Per i conservatori, che difendono il matrimonio come unione valida solo se contratta da un uomo e da una donna, quella della Corte Suprema è l’ultima spiaggia.
Sperano ancora in un freno azionato in extremis dai giudici, che pure, hanno già favorito in vari modi la diffusione delle unioni gay. Lo hanno fatto evitando di pronunciarsi su alcune richieste di messa al bando e abolendo, nel 2013, una delle norme contenute nel «Defense of Marriage Act»: quella che negava i benefici economici previsti dalle leggi federali alle coppie gay le cui unioni erano state riconosciute sulla base di una varietà di norme dei singoli Stati.
Il «Family Research Council», roccaforte dei movimenti cristiani, giudica un «atto dovuto» la decisione della Corte Suprema di pronunciarsi sulla materia e considera «prematura» la fiducia manifestata dal fronte progressista. In effetti una cosa è non opporsi ai matrimoni gay, un’altra negare ai singoli Stati ogni possibilità di intervento su una materia comunque controversa: basti pensare che ancora nel 2008 la California, uno Stato certo non dominato dai conservatori, si espresse in un referendum contro le unioni omosessuali.
Ma negli ultimi anni la sensibilità del popolo americano in questo campo è cambiata con una rapidità che ha sorpreso anche i movimenti per i diritti civili che si sono improvvisamente trovati a percorrere una strada in discesa.
«Siamo al momento della verità: i fatti sono chiari e i pronunciamenti delle corti distrettuali federali sono stati pressoché univoci. E’ ora di chiudere la partita» dice Chad Griffin, il presidente di «Human Rights Campaign», una delle organizzazioni più attive sulla difesa dei diritti dei gay. Insieme al cambiamento degli umori dei cittadini è cambiata la politica. Repentinamente. Barack Obama è stato il primo presidente a esprimersi apertamente a favore delle unioni gay. Solo dieci anni fa George Bush aveva fatto del «no» ai matrimoni tra omosessuali uno dei cavalli di battaglia della sua rielezione. E non sono passati nemmeno vent’anni da quando (era il ’96) l’allora presidente Bill Clinton, tuttora un’icona della sinistra Usa, decise di firmare il «Defense of Marriage Act». Ma Richard Socarides, allora consigliere del presidente sulle questioni dei gay, oggi giudica positivamente la svolta storica in atto.
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Un percorso che è stato pavimentato dagli sforzi continui di Obama e del suo ministro della Giustizia, Eric Holder, di rimuovere gli ostacoli ed estendere i diritti per le coppie gay. E che la Corte Suprema ha accompagnato con tre decisioni a favore dei diritti degli omosessuali, tutte e tre redatte dal giudice Anthony Kennedy. Un vero precursore: già nel ’96, lo stesso anno della legge a favore delle sole unioni eterosessuali, firmò una sentenza che negava allo Stato del Colorado il diritto di negare l’estensione a gay e lesbiche della protezione dei diritti civili appena decisa da alcune amministrazioni locali.
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