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Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera”
Dopo l’attestato di rinnovata stima conferitogli ieri da Matteo Renzi, sono diventati sei i presidenti del Consiglio che hanno accordato la propria fiducia a Gianni De Gennaro. Un rosario di nomine che comincia da Giuliano Amato, che lo volle capo della polizia nel 2000, e non s’è mai interrotto fino alla scelta del suo nome per il vertice di Finmeccanica fatta da Enrico Letta e confermata da Renzi, passando per la soluzione dell’emergenza rifiuti a Napoli, il coordinamento dei servizi segreti e la decisione di inserirlo nell’esecutivo come sottosegretario alle politiche della sicurezza.
Per chi lo apprezza è un’ulteriore dimostrazione delle sue capacità; per i detrattori la conferma che nessuno ha il coraggio di metterselo contro. Lui, osservatore interessato della disputa, continua a lavorare conservando l’atteggiamento che ha sempre frapposto tra sé e le polemiche, come fra sé e i successi, o le sconfitte: un «servitore dello Stato» a disposizione delle istituzioni, finché qualcuno riterrà di dovervi fare ricorso; quando gli diranno che non serve più, toglierà il disturbo.
Un atteggiamento che ha diviso e continua a dividere, e che però gli ha consentito di attraversare pressoché indenne molte temperie. Compresa la pagina più nera, il G8 di Genova, per la quale ha attraversato un processo (collaterale rispetto ai fatti della Diaz) conclusosi con il giudizio della Cassazione che annullò definitivamente la condanna in appello, dopo l’assoluzione in primo grado. Una vicenda tragica tornata d’attualità dopo la sentenza della corte europea per i diritti umani, divenuta occasione per riaprire dubbi e interrogativi sulla sua nomina alla presidenza di Finmeccanica.
Ma visto quanto già stabilito in precedenza dalla giustizia italiana — che al di là delle responsabilità personali non aveva certo assolto il comportamento della polizia e dei suoi vertici dell’epoca — a molti sono sembrate domande fuori tempo.
Pure a De Gennaro, che la propria coscienza l’aveva interrogata (per usare un’espressione del vicesegretario del Pd Debora Serracchiani) all’epoca dei fatti e tante altre volte in seguito; anche pubblicamente, durante le rare interviste e le più frequenti audizioni (a cominciare da quella davanti alla commissione parlamentare d’indagine nell’agosto 2001, 20 giorni dopo i fatti), deposizioni e testimonianze.
Assolvendo se stesso e dando atto degli errori evidentemente commessi da altri, anche al di là delle decisioni della magistratura (non sempre condivise nel merito, peraltro).
Dopo la riapertura del «caso» con le parole di Matteo Orfini — che ribadiva un’opinione espressa nel 2013, ma nel frattempo è diventato presidente del Pd —, la preoccupazione del numero uno di Finmeccanica è stata quella di verificare se fossero indicative di un nuovo atteggiamento da parte del governo. Così non era, come hanno riferito anche le cronache di ieri. Dunque è rimasto al suo posto, aspettando la conferma della fiducia arrivata ieri per bocca del premier. Che dovrebbero chiudere la vicenda, se non ci saranno ripensamenti che a questo punto avrebbero del clamoroso. Almeno fino alla prossima polemica.
L’ultima ha fatto venire alla luce un’altra particolarità legata alla figura dell’ex «superpoliziotto»: il rovesciamento dei fronti politico-editoriali a suo sostegno. Dalle colonne del quotidiano Il Foglio , ad esempio, è arrivata una difesa dell’investigatore antimafia che lavorò al fianco di Giovanni Falcone (con tanto di richiamo agli «smemorati»), ricordando i successi degli anni Ottanta legati al pentimento di Tommaso Buscetta.
Senza però fare cenno agli anni Novanta, quando lo stesso giornale illustrava ai propri lettori «l’irresistibile carriera del signore dei pentiti», alimentando i sospetti di trame costruite a tavolino attraverso i collaboratori di giustizia. Per lo più in combutta con Gian Carlo Caselli e Luciano Violante. In quella stagione lo sbirro veniva spesso accomunato al giudice e al politico, tutti insieme «amici della sinistra», che per contro lo portava in palmo di mano.
Poi arrivò il 2001, il ritorno di Berlusconi a palazzo Chigi e il ricambio al vertice della polizia dato per sicuro; ma proprio il G8 di Genova cambiò le carte in tavola, e tante opinioni si ribaltarono.
La sinistra, soprattutto quella più estrema, cominciò ad attaccarlo e la destra a difenderlo; situazione che, trascorso qualche altro anno, s’è riproposta con la frase di Orfini. Anche se nel frattempo De Gennaro ha cambiato diversi lavori. Sempre con il suo scudo di «servitore delle istituzioni», seppure consapevole di non esserlo a tempo indeterminato.
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