DAGOREPORT - MA QUALE TIMORE DI INCROCIARE DANIELA SANTANCHÈ: GIORGIA MELONI NON SI È PRESENTATA…
Massimo Gaggi per il "Corriere della Sera"
Alle parole d'ordine ispirate, ai richiami a un radioso futuro e alla conquista di nuove frontiere, aveva rinunciato da tempo, piegato dalle prospettive cupe dell'economia e dalla contrapposizione tra repubblicani e democratici che ha fatto naufragare i propositi di Barack Obama di governare con una logica bipartisan. Più di recente è venuta la scelta e di trasformare la campagna elettorale in un corpo a corpo dal quale cercare di uscire vincitore non puntando sul valore del proprio progetto politico, ma convincendo gli americani che Mitt Romney è un candidato impresentabile e inaffidabile.
Infine, ieri, la decisione di farsi incoronare alla convention democratica di Charlotte, all'inizio di settembre, dall'ex presidente Bill Clinton: il leader più amato, quello maggiormente capace di parlare al cuore dei democratici, ma anche un politico pragmatico e cinico col quale l'attuale presidente si scontrò spesso durante la campagna del 2008.
E tra i due ci sono state scintille anche in tempi recenti. Come quando, qualche settimana fa, l'ex presidente fece irruzione sul palcoscenico della campagna definendo «da incorniciare» la carriera manageriale del candidato repubblicano, e dicendosi d'accordo con la sua proposta di prorogare tutti gli sgravi fiscali dell'era Bush che scadranno a fine 2012, proprio mentre la Casa Bianca cercava di demolire l'immagine del Romney imprenditore e di far passare una revisione del regime fiscale che, pur salvando gli sconti fiscali per il ceto medio, facesse pagare più tasse ai ricchi.
Dopo quell'episodio spiacevole, Clinton ha cercato di correggere il tiro, ma la ruggine è rimasta. Questo, però, non è il momento di recriminare: con l'orizzonte economico sempre più livido che rende proibitiva per qualunque governo uscente l'impresa di ottenere un nuovo mandato dagli elettori (vedi l'esito di tutte le elezioni degli ultimi due anni in Occidente), c'è solo da serrare i ranghi.
La campagna «kennediana» di quattro anni fa è stata messa in soffitta. Nessuno pensa più a vincere giocando bene la partita: conta solo prendere un voto in più, in qualunque modo. Va bene anche spuntarla con un autogol a tempo scaduto. Si spiega così, ad esempio, il ricorso da parte di Obama a spot che attaccano Romney in modo addirittura sprezzante. Come quello nel quale, mentre si sente il candidato repubblicano cantare con voce stonata «America the Beautiful», scorrono alcuni titoli di giornali e di servizi tv che lo accusano di aver trasferito posti di lavoro americani in Messico, Cina e India quando guidava il fondo Bain Capital e di aver portato i soldi in Svizzera, Bermuda e nelle Cayman Island.
Obama non ha autorizzato questo pugno nello stomaco a cuor leggero, ma solo perché temeva un effetto boomerang. Quando i risultati dei focus group l'hanno convinto che gli elettori democratici vogliono una condotta aggressiva della campagna, non solo ha dato il via libera, ma ha anche scelto di comparire in prima persona all'inizio dello spot per dare la sua «benedizione».
E, visto che ormai ha indossato i guantoni, il presidente è andato ancora più in là con una raffica di messaggi video nei quali si chiede se in certi anni Romney abbia pagato qualche tassa e afferma che l'esponente conservatore ha sfruttato tutti i trucchi trovati tra le pieghe della normativa tributaria per eludere i suoi obblighi di contribuente: se non lo accusa di essere un evasore, poco ci manca.
Molti analisti ritengono che un leader come Obama, che aveva legato la sua immagine ad un messaggio «alto», rischia grosso buttandosi nella mischia in questo modo. Ma, come detto, gli strateghi della sua campagna si sono convinti da tempo che ripercorrere la strada del 2008 non è più possibile.
E, con i repubblicani sostenuti dai finanziamenti dei miliardari della destra radicale decisi a combattere una battaglia nel fango, non resta che ribattere colpo su colpo. Giocando, anzi, d'anticipo. Del resto nemmeno il leader mormone - che accusa il presidente di avere una filosofia politica «da straniero», non in sintonia con gli umori dell'America - si sta risparmiando.
Un dato impressiona: nel mese di luglio la campagna di Obama ha trasmesso spot tv negativi, contenenti attacchi diretti a Romney, ben 118 mila volte, mentre i messaggi positivi, di proposta politica, sono stati appena 56 mila. Romney ha risposto con 59 mila messaggi negativi e 12 mila positivi.
Così, più del Kennedy del 1960, l'Obama di oggi rischia di somigliare al George Bush che nel 2004 mise alle corde John Kerry con una campagna durissima nella quale il senatore democratico fu dipinto come un personaggio inconsistente, inaffidabile: un vanesio e un falso eroe della guerra del Vietnam. Campagna brutta ma vittoriosa quella di Bush. Gli strateghi del quartier generale di Chicago sperano di ottenere adesso un risultato analogo.
Certo, tra crisi economica e rissa politica è difficile che, poi, i democratici riescano a recuperare terreno: a conservare la maggioranza al Senato e a riconquistarla alla Camera. Con un Congresso ostile, Obama, pur con la riconferma in tasca, sarebbe un presidente «dimezzato» nel momento più drammatico per l'economia americana e per quella mondiale.
La Casa Bianca ne è consapevole, ma lo considera un problema del dopo. Adesso c'è solo da evitare il tracollo. à per questo che lo stratega Axelrod, quattro anni fa bestia nera dei Clinton, oggi spiega, serafico, al «New York Times» che se c'è una persona al mondo in grado di parlare con grande autorevolezza non solo degli ultimi quattro anni ma dell'ultimo ventennio, questo è proprio l'ex presidente. Che ha accettato con entusiasmo l'offerta di Obama di essere lui a pronunciare il discorso ufficiale di ricandidatura del presidente mercoledì 5 settembre. Ventiquattro ore dopo toccherà allo stesso Obama salire sul podio per accettarla, sotto il tradizionale diluvio di palloncini rossi, bianchi e azzurri che segnerà la chiusura della convention.
Normalmente il penultimo giorno di questo grande rito politico è riservato all'intervento del vicepresidente, ma Joe Biden pronuncerà il suo discorso giovedì, subito prima dell'intervento di Obama. Come nel caso degli spot televisivi negativi, anche la scelta di mettersi nelle mani dell'amico-nemico Clinton ha, per Obama, i suoi rischi. L'ex presidente è il miglior testimonial dei democratici, ma è anche un battitore libero, con le sue impennate. Un leader al quale la sinistra liberal non ha mai perdonato di aver confezionato, dalla Casa Bianca, una politica economica sostanzialmente liberista affidata a personaggi assai vicini a Wall Street come l'ex capo di Goldman Sachs, Bob Rubin.
Tutti handicap da non sottovalutare, certo, ma Bill, il politico dell'Arkansas che sa parlare soprattutto al Sud del Paese, può essere, per Obama, la chiave che porta alla conquista di qualche Stato in bilico nella parte meridionale del Paese. A partire proprio dal Nord Carolina, lo Stato scelto per la convention. Basterebbe spuntarla in un paio di Stati che in genere nei sondaggi sono considerati più vicini ai repubblicani, e il gioco sarebbe fatto.
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