FLASH! - FERMI TUTTI: NON E' VERO CHE LA MELONA NON CONTA NIENTE AL PUNTO DI ESSERE RELEGATA…
Fabio Martini per “la Stampa”
Quella mattina anche Enrico Letta perse l' innocenza. Otto febbraio 2014, otto del mattino, palazzo Chigi ancora semideserto, nei corridoi si avverte soltanto il rumore di qualche fotocopiatrice che ricomincia a sussultare dopo una notte in sonno. Il presidente del Consiglio fa entrare nel suo studio i tre ospiti che hanno chiesto di incontrarlo: il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini, il presidente dei senatori Luigi Zanda e quello dei deputati Roberto Speranza. I tre, a sorpresa, gli chiedono di lasciare il campo e Letta risponde così: «Questa è un' operazione che farà male al Paese».
Dell' incontro non si seppe nulla e successivamente la Direzione del Pd tolse la fiducia a Letta, chiedendo a Matteo Renzi di ascendere a palazzo Chigi. Passato alla storia come un complotto solitario del "pugnalatore" fiorentino, l'avvicendamento Letta-Renzi in realtà fu opera collettiva di tutte le correnti del Pd, con il concorso della sinistra bersaniana (ma non di Bersani che era convalescente), e in quella occasione si manifestò per l' ennesima volta quella che si può definire come una malattia ereditaria della sinistra italiana: la vocazione a divorare i propri leader. A mangiarseli mentre sono vivi, in carica: spesso con operazioni personalistiche e non, come sarebbe fisiologico, dopo sconfitte elettorali o battaglie politiche.
In queste ore attorno ad Enrico Letta si sdilinquiscono tutti in elogi entusiastici. Proprio come capitato, ai loro esordi, a tutti i leader poi vittime. Uno dopo l' altro sono caduti sul "campo" due presidenti del Consiglio (Romano Prodi nel 1998, Massimo D' Alema nel 2000), due segretari del Pd (Walter Veltroni nel 2009 e Pierluigi Bersani nel 2013) e un candidato al Quirinale: Prodi nel 2013. Proprio quella corsa, passata alla storia come la "congiura dei 101", resta il fantasma che incombe su ogni nuovo leader del Pd.
Una storia diversa da come l' hanno raccontata le parti in gioco: storia priva di «uomo nero», ma ricca di «colpevoli» rimasti nell' ombra. Prima sequenza: nella mitica casa di Gianni Letta, Pierluigi Bersani e Silvio Berlusconi concordano: votiamo ad oltranza Franco Marini sino ad eleggerlo presidente. Un accordo battezzato fuori dai canali formali con un' idea dentro: un ex Dc al Quirinale che apra la strada ad un ex Pci come Bersani a Chigi. Ai grandi elettori Marini piace ma non troppo.
Al primo scrutinio ottiene 521 voti, sono molti meno dei previsto ma dal quarto scrutinio sarebbero sufficienti per salire al Quirinale. Eppure, contro la volontà di Marini, al Pd decidono che si debba ritirare e si debba puntare su Prodi. Gli ex popolari, tutti con Marini, ci restano malissimo e da quel momento si mettono di traverso.
Anni dopo ha raccontato Marini a La Stampa: «La rapidità con la quale Bersani ha lanciato Prodi, senza preparare la candidatura, si spiega in un modo solo: provò a giocare d'anticipo perché temeva una candidatura di D'Alema».
E infatti nella notte D'Alema fa sapere di essere pronto a sfidare Prodi. A scrutinio segreto, scontro aperto ma vero tra i duellanti di un ventennio. Nella notte vengono preparate le schede per la mattina successiva. E qui nuovo colpo di scena. Bersani propone ai grandi elettori la candidatura Prodi ma a quel punto accade l' imponderabile: all' annuncio del nome di Professore, dalle prime due file si alza un applauso entusiastico e si «cede» all' acclamazione senza voto. Racconterà più tardi Massimo D' Alema: «In sala c'è stato l'errore grave di chi doveva» proporre l'altra candidatura «e non lo ha fatto», Anna Finocchiaro.
A quel punto, visto che dal Pd nessuno si preoccupa di coinvolgere Monti, Rodotà, Grillo, è lo stesso Prodi, in missione in Mali, a telefonare a Massimo D' Alema, che è sincero: «La situazione, dopo l'esito del voto su Marini, è molto confusa e tesa». Prodi mentalmente annota: D'Alema non mi farà votare dai suoi. Poi chiama Mario Monti, che gli dice: «Romano la tua candidatura è divisiva...».
Chi può ancora fare ancora la differenza è Stefano Rodotà, votato fino a quel momento dai Cinque Stelle. Ma il professore non si ritira. Prima che la votazione inizi, Prodi telefona alla moglie Flavia: «Non passerò». Mancheranno 101 grandi elettori Pd, la profezia si avvera e proprio l' altalena di quelle ore racconta la malattia ereditaria del centrosinistra: una conflittualità che da politica diventa spesso personalistica. Enrico Letta lo sa e in queste ore chi lo conosce racconta che ha capito bene la lezione.
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