RIUSCIRÀ SALVINI A RITROVARE LA FORTUNA POLITICA MISTERIOSAMENTE SCOMPARSA? PER NON PERDERE LA…
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Francesco Verderami per corriere.it
Il mosaico non si compone, il mosaico si sta rompendo. Ciò che Draghi immaginava sta capitando: la maggioranza di larghe intese non c’è più. Già nel primo pomeriggio di sabato l’Ufficio di presidenza del gruppo democratico alla Camera informava i suoi parlamentari che «ormai era andata». Come se sapessero in anticipo la mossa di Conte, il suo ennesimo rilancio sui «9 punti».
«Ma quale trattativa, quale verifica...», commentava un deputato del Pd: «I grillini non hanno capito che è Draghi a dare la fiducia, non loro. Prepariamoci alle elezioni». Non ci sono margini per una soluzione della crisi, perché i pezzi del mosaico non si compongono: M5S continua a piantare paletti; Lega e Forza Italia non accettano più di stare al governo con il Movimento; un pezzo del Pd sarebbe disponibile a una maggioranza con i transfughi del grillismo e un altro non vuol saperne di mollare l’ex «punto di riferimento» di non sa che cosa.
LE DIMISSIONI DI MARIO DRAGHI BY OSHO
Eppoi c’è Draghi. Sommerso dagli appelli delle cancellerie internazionali, subissato dai documenti di governatori, sindaci, associazioni di categoria, investito dalla petizione popolare organizzata da Renzi. È questa pressione che alimenta la flebile speranza di chi non si rassegna alle urne. «È il vento che sta cambiando», diceva il titolare della Cultura Franceschini ad un collega di governo. E dietro quella espressione si celava un ragionamento, l’idea cioè che il premier dopo essere apparso come la vittima di una crisi incredibile - rischi di apparire con l’andare del tempo come un capitano che abbandona la nave, se dovesse confermare le dimissioni. E in fondo così provava a dipingerlo Conte, quando gli ha ricordato con malizia che «dispone di una maggioranza ampia come mai in questa legislatura».
sergio mattarella mario draghi
Se si rovescia però la questione, Draghi può opporre la tesi che proprio le forze politiche mostrano di non recepire i segnali provenienti dal Paese e dunque dai loro rispettivi elettorati. Ma la maggioranza di unità nazionale, invece di compattarsi, si disfa man mano che si avvicina l’appuntamento del 20 luglio in Parlamento. «Conte — riconosce un autorevole ministro dem — ha ormai deciso di spaccare. Alimenta la tensione nel Movimento e vuole andare alle elezioni. È un... (bip)». E certo, se questa è la strategia del leader grillino, si è rivelata controproducente: i gruppi stanno per implodere, i ministri sono a un passo dal lasciare. Il Pd esorta alla disobbedienza, sollecita la nascita di un gruppo di responsabili per appoggiare il premier. Tutto pur di non veder sciogliere le Camere.
GIUSEPPE CONTE E LA DEPOSIZIONE DI DRAGHI - BY EDOARDO BARALDI
Sarebbe tuttavia un paradosso per Draghi accettare di essere sostenuto anche dai responsabili. Già oggi, dopo che Patuanelli non ha votato la fiducia al Senato, il suo gabinetto somiglia all’esecutivo Prodi, quando alcuni ministri del Professore andavano a Palazzo Chigi per i provvedimenti da adottare e poi uscivano in piazza per appoggiare chi quei provvedimenti contestava. È evidente allora il motivo per cui non intende proseguire, subendo lo smacco dei responsabili. O c’è il Movimento o non c’è lui a Palazzo Chigi. E visto che il capo dei grillini insiste, Di Maio si è rassegnato: «A questo punto la legislatura è finita e Conte si assumerà la responsabilità di aver fatto cadere il governo e di aver portato il Paese alle urne».
Il mosaico non si compone, il mosaico si è rotto. «Un governo che non può governare non serve a nessuno», riconosce Giorgetti. Che pure si era impegnato nella trattativa di questi giorni, quando tutti si sono sentiti con tutti. Franceschini vede ancora «dei margini» e se Draghi optasse per restare nemmeno Lega e Forza Italia avrebbero la possibilità di rompere la larga maggioranza. Ma come nel gioco dell’oca si torna sempre alla casella di partenza: M5S viene dato per perso, «quel che potevamo fare lo abbiamo fatto», spiegano i grillini governisti, «sappiamo che si andrà a votare». A dire il vero il ministro della Difesa Guerini ne era certo ormai da qualche giorno: «Draghi non tornerà indietro», sosteneva al telefono dagli Stati Uniti.
Il pressing Usa e Ue su Draghi
I giochi insomma sembrano finiti, visto che l’ultima parola spetta al premier. E Draghi l’ultima parola l’ha già detta in Consiglio dei ministri e dal capo dello Stato. Immaginare un colpo di scena a sorpresa fa parte delle eventualità che in politica si devono tener da conto, su questo non c’è dubbio. Però ci sarà un motivo se la macchina elettorale che accompagna certi momenti della legislatura si è messa all’opera. La data del decreto di scioglimento delle Camere sarebbe stata spostata in avanti di qualche giorno, a venerdì 29. Si è scoperto infatti che il 25 settembre non si potrebbe votare, perché cade in una festività ebraica. E dunque le elezioni dovrebbero svolgersi la domenica successiva: il 2 ottobre.
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