RIUSCIRÀ SALVINI A RITROVARE LA FORTUNA POLITICA MISTERIOSAMENTE SCOMPARSA? PER NON PERDERE LA…
Gabriele Romagnoli per "la Repubblica" - Estratti
House of Dems, finale di stagione.
Forse dell’intera serie, perché una (ulteriore) vittoria di Trump non sarebbe rassicurante per la continuazione dello spettacolo. Questo che stiamo seguendo va in scena da oltre trent’anni. Era il 1992 quando Bill Clinton fu eletto presidente (a capo di un triumvirato che comprendeva la moglie Hillary e il vice Al Gore). Al tempo Joe Biden era senatore già da due decenni.
Chuck Schumer sedeva al Congresso da undici anni. Nancy Pelosi da cinque, ma aveva spinto in profondità le radici. Il giovane Barack Obama, invece, sposava Michelle, lavorava come avvocato e, già interessato alla politica, dirigeva un movimento per far registrare al voto più elettori possibile. Iniziava così una storia corale in cui i protagonisti, come vuole il manuale di sceneggiatura, trionfano e cadono nella polvere, si risollevano tenendosi gli uni agli altri, poi sciolgono abbracci e patti, tradiscono, si vendicano, muoiono, risorgono e ricominciano, magari per interposta persona.
Nella terzultima puntata tutti, come sull’Orient Express di Agatha Christie, sono stati gli assassini della già agonizzante candidatura di Biden (lui incluso). Nella penultima, ancora in corso, stanno cercando di attribuirsi ruoli di king maker, o più probabilmente di queen maker, attenti a non sbagliare cavallo, a non puntare troppo tardi o troppo presto, a non stare al fianco, o peggio alle spalle, dell’alleato sbagliato. Qualcuno (i Clinton) è già uscito allo scoperto spendendosi per Kamala Harris (come avevano sorretto l’ostinazione di Biden).
Qualcun altro (Obama) ha plagiato il copyright di Mario Draghi sulle “acque inesplorate” preferendo rimanere al largo, ma tenendo binocolo e cannone puntati sulla costa. Qualcun altro (Schumer) ancora tace, aspettando che la realtà diventi irreversibile per dichiararsene sostenitore da tempi non sospetti. Franceschini e Renzi, con chili di pop corn, guardano e prendono appunti, imparando dai professionisti.
Avere l’endorsement giusto è una spinta rilevante. Un esperimento condotto dall’università privata Adelphi, a New York, lo dimostra. A un gruppo di elettori vennero mostrate immagini di candidati per testarne la reazione. Da prevalentemente negativa virò al positivo quando la fecero precedere da un’apparizione subliminale (un flash) di un altro politico.
Quale? Bill Clinton. Doveva pur saperlo Al Gore quando, correndo contro Bush e verso la sconfitta più vincente della storia, evitò il suo appoggio per prendere le distanze da uno scandalo a corte. Clinton avrebbe sì potuto essere il suo king maker (dandogli almeno l’Arkansas, dove invece perse). Da allora gli è rimasto il complesso del mancato fautore e il suo bacio è divenuto quello della morte. Lo è stato per John Kerry nel 2004. Lo è stato per la moglie Hillary nelle primarie 2008 (perse contro Obama) e nel 2016, finalmente lanciata, ma contro lo scoglio di Trump.
Sarà vero che lei, mancata prima donna presidente, faccia il tifo perché riesca Kamala Harris? È una donna con molte ferite, alcune ancora aperte. Ha una memoria più buona della disposizione d’animo: non flirta con il perdono, ma con il tornaconto.
Se a Obama aveva qualcosa da chiedere (è stata Segretario di Stato), che cosa mai potrebbe ottenere, a questo punto, da Kamala? I Clinton si sono esposti perché ci credono o perché la ritengono una causa persa, ma tanto nobile da sposare, come in uno di quei dibattiti allestiti in cui eccellevano ai tempi del college?
Poi ci sono i due grandi vecchi del Congresso. Pelosi era riluttante, ieri ha sciolto la riserva. Schumer ancora no. Sono stati loro (più di un secolo e mezzo, insieme) a spingere indietro Biden mentre ancora cercava di fare un barcollante passo avanti.
(…)
La vera star delle ultime stagioni è però Obama. Nel suo personaggio si accumulano le maggiori contraddizioni: l’aspirazione al bene collettivo e la necessità di fare male a qualcuno; il desiderio di risarcire e l’imposizione di danni ulteriori; la riconoscenza tardiva e l’ancor più tardiva disconoscenza; il desiderio di saggezza e la constatazione che non sia umano esserlo sempre, neppure spesso, ma ci si può comunque atteggiare.
Nel 2016 sostenne Hillary e non il suo vice Biden, non perché fosse giusto, ma perché tutti erano illusi che la “macchina Clinton” fosse inarrestabile (invece era soltanto un’altra poco gioiosa macchina da guerra). Nel 2020 intervenne a favore di Biden non per rimediare, ma perché lo stallo dei nanetti dems stava pregiudicando la solidità della casa.
Adesso si sta probabilmente chiedendo dove e quando abbia sbagliato e come recuperare. Il problema, per questi democratici, è che, non potendo più vincere in prima persona, il successo della loro parte li soddisfa soltanto se possono apparire nella foto di gruppo: sullo sfondo sì, ma sul gradino più alto, sovrastando l’eletto o l’eletta e circondati dall’aura del creatore.
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