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Andrea Bonanni per “la Repubblica”
I capi di governo europei hanno aspettato alcune ore prima di condannare il tentativo di colpo di stato in Turchia. La ragione di questo ritardo deve farci riflettere. Non hanno indugiato perché avessero dubbi sulla illegittimità di un golpe militare. E neppure perché sperassero, sotto sotto, di togliersi dai piedi un alleato scomodo e ingombrante come Erdogan. L’esitazione è dovuta al fatto che, oggi, l’Europa non può permettersi di venire ai ferri corti con la Turchia e con i suoi due milioni di profughi siriani pronti a sbarcare sulle nostre coste.
Ci fosse pure Belzebù al potere ad Ankara, è con lui che si pensa di dover trattare per evitare la destabilizzazione dei nostri sistemi democratici innescata da una nuova ondata di centinaia di migliaia di rifugiati lungo la rotta balcanica.
Questo concetto era ben presente ai generali golpisti, che infatti nel loro primo comunicato si sono affrettati a rassicurare il mondo confermando la validità «di tutti gli accordi internazionali della Turchia». E sfortunatamente è fin troppo chiara allo stesso Erdogan, che ora sta mettendo in atto un «contro-golpe » mobilitando le piazze, licenziando e arrestando migliaia di giudici e scatenando la sua vendetta sui militari infedeli, del tutto indifferente agli appelli alla moderazione e al rispetto delle regole democratiche che gli arrivano dall’Europa.
Gli accordi di marzo tra la Ue e la Turchia hanno trasformato il Paese anatolico nell’antemurale dell’Europa, affidandogli di fatto il controllo e la gestione della nostra frontiera esterna più vulnerabile. E quindi consegnando nelle mani di chi governa ad Ankara un potere contrattuale enorme. Il fatto che la marea inesauribile di disperati, che aveva portato oltre un milione di profughi a sbarcare in Grecia in meno di un anno, si sia fermata di botto dopo quella intesa può consolare Angela Merkel e i politici europei che si preparano alle elezioni. Ma dimostra anche come le autorità turche abbiano la capacità di regolare i flussi a loro piacimento e secondo la loro convenienza politica.
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Ora però il tentativo di colpo di stato, e il contro-golpe che rinforza i poteri autocratici di Erdogan, stanno profondamente cambiando le regole del gioco. Dal 1987, quando Ankara per la prima volta chiese l’adesione alla Ue, la questione turca è stata basata su un sillogismo che adesso vacilla. La Turchia, si diceva, non è ancora pronta per diventare europea.
Ma i negoziati di adesione, e il mantenimento di un dialogo politico intenso, rafforzeranno quelle componenti democratiche della società turca che si sentono europee e freneranno invece le componenti nazionaliste e autoritarie. Dunque il solo fatto di negoziare l’adesione può far sì che la Turchia diventi un Paese veramente democratico e quindi pronto per entrare a far parte della Ue. È sempre in questa logica che si sono stretti gli accordi di marzo sui migranti riconoscendo che la Turchia era ormai un paese «sicuro », dove poter rimandare senza troppi problemi di coscienza i profughi entrati illegalmente in Europa, e aprendo nuovi capitoli del negoziato di adesione.
Purtroppo tutti gli attori che si sono esibiti sulla scena in queste ore smentiscono il sillogismo di una Turchia avviata verso un radioso avvenire democratico grazie alle sue aspirazioni europee. Non sono ovviamente compatibili con l’Europa i militari golpisti. Ma non lo è neppure Erdogan che scatena le piazze, arresta i giudici non compiacenti e pensa a reintrodurre la pena di morte. Né sembra molto “europeo” il predicatore islamico Fethullah Gülen, che Erdogan indica come ispiratore del golpe e di cui chiede l’estradizione dagli Stati Uniti.
I ministri degli esteri che oggi si ritrovano a Bruxelles avranno quindi un serio problema per le mani. Se Erdogan non ferma la sua deriva autoritaria e non ripristina al più presto le istituzioni democratiche e le libertà civili, non solo i negoziati di adesione dovranno essere congelati, ma pure gli accordi di marzo per il rinvio dei rifugiati siriani in Turchia andranno seriamente messi in discussione.
Anche la realpolitik della cancelliera Merkel deve darsi limiti politici e morali. Le esitazioni viste nella notte dei carri armati, in nome di un pragmatismo che dispone l’Europa a negoziare con qualsiasi potere insediato ad Ankara, non possono sopravvivere al brusco risveglio del dopo-golpe. L’idea di delegare il controllo delle nostre frontiere esterne a un potere imprevedibile, che finisce per tenere l’Europa in ostaggio, dovrà prima o poi essere riconsiderata. Anche se, al momento, nessuno sembra in grado di proporre un’alternativa credibile.
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