RIUSCIRÀ SALVINI A RITROVARE LA FORTUNA POLITICA MISTERIOSAMENTE SCOMPARSA? PER NON PERDERE LA…
Gabriele De Stefani per "la Stampa"
Cinque milioni di italiani guadagnano meno di 10 mila euro lordi all'anno. E un milione 800 mila, dei 2,7 milioni part-time, ha dovuto accettare l'orario ridotto contro la sua volontà: non ha alternative. Il report della Fondazione Di Vittorio fotografa un ulteriore peggioramento delle condizioni di lavoro nel nostro Paese. Il gap tra gli stipendi italiani e il resto d'Europa cresce: prima della pandemia (quando l'aumento dei salari era stato del 3,1% in vent' anni, contro impennate a dure cifre in Francia e Germania) e anche dopo, con una riduzione della massa salariale del 7,2% (ridotta al 3,9% grazie al sostegno degli ammortizzatori sociali) nettamente più pesante del 2,4% della media europea e dello 0,7% tedesco.
Il lavoro è povero anche perché poco specializzato: nelle due fasce di attività meno qualificate si trova il 34% degli italiani (la media europea è del 27%) e nelle due più alte appena il 15,5% (larghissimo il gap con il 25% dell'area dell'euro). «È evidente che oltre ad occuparci della quantità di lavoro disponibile nel nostro Paese, dovremmo porci un serio problema di qualità» sottolinea Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione.
«La contrattazione nazionale è l'unico argine per tutelare i diritti, va rafforzata fino ad arrivare ad una legge sulla rappresentanza che metta fuori gioco i contratti pirata», rilanciano la vicesegretaria generale della Cgil, Gianna Fracassi, e la segretaria confederale Tania Scacchetti. In questo quadro, registrato in larga parte pre-Covid, l'impatto della pandemia è ovviamente peggiorativo: i primi a saltare sono stati i contratti precari e discontinui e le professioni con meno specializzazione.
La fondazione della Cgil calcola che nel 2020 il salario medio di un dipendente a tempo pieno in Italia è diminuito del 5,8% rispetto al 2019, con una perdita in termini assoluti di 1.724 euro. È il calo più ampio nell'Ue (-1,2% in media). Il salario medio annuo, nonostante il salvagente degli ammortizzatori sociali, è sceso di 726 euro (-2,4%) a 27.900. "Non siamo un bancomat" E proprio la riforma degli ammortizzatori, ancora lontana dalla sua fisionomia definitiva anche per le risorse scarse destinate dalla manovra economica, continua a scatenare le proteste delle imprese.
L'estensione della cassa integrazione è un ombrello necessario proprio per l'esercito di addetti, spesso precari e poco qualificati, delle piccole e medie aziende del terziario, chiamate ora a contribuire all'allargamento delle tutele: «Per commercio, turismo, servizi tecnici e magazzinaggio scatta un incremento dei contributi di quasi 500 milioni, di cui 200 riferiti alle imprese fino ai 15 dipendenti. L'aumento medio per dipendente è di 90 euro - dice Confesercenti - Per avere un'effettiva riduzione della pressione fiscale sui fattori produttivi serve subito un intervento compensativo».
Dura anche Confindustria: «Le aziende versano ogni anno allo Stato 3 miliardi per la cassa integrazione, ricevendo prestazioni per 600 milioni. Siamo contributori netti per 2,4 miliardi. Non possiamo essere sempre il bancomat di Stato» attacca il presidente Carlo Bonomi. Che, dall'assemblea umbra dell'organizzazione, rilancia: «Se vogliamo dare ammortizzatori a tutti, tutti devono contribuire. Anziché estendere la cassa integrazione, occorre pensare a un nuovo ammortizzatore di natura assicurativa».
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