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Mattia Feltri per "la Stampa"
La vita spericolata dei tesorieri, o segretari amministrativi, insomma di quelli deputati a far quadrare i conti di partito, è ben riassunta da Luigi Lusi del Partito democratico: «Ho parlato con i giudici e mi sono assunto la responsabilità di tutto e di tutti». E' la formula che questi cyber contabili, una volta incaricati, si stampano nel cervello. Da che mondo è mondo, una volta beccati sono letteralmente affari loro.
Lo sanno da prima e si adeguano. Una leggenda del settore, il democristiano bergamasco Severino Citaristi, negli anni terribili di Mani Pulite raggiunse la cifra record di settantaquattro avvisi di garanzia. Trascorse anni a spiegare senza cercare di salvarsi la pelle che il suo ruolo era di recuperare quattrini, con sistemi legali e qualche volta illegali, per far girare il pachidermico partito cattolico.
Non era tenuto a relazionare alcuno, disse, e si rendeva conto di avere violato la legge ma così allora funzionava e continua a funzionare la democrazia, e sin dall'alba della Repubblica, se non dall'alba dell'uomo. Si prese le condanne che doveva prendersi e concluse la sua esperienza terrena nella solita, modesta e decorosa casa della periferia di Bergamo, col tavolo della cucina in formica.
Non si ha memoria di un tesoriere che abbia rigirato le responsabilità ai vertici politici del partito. Francesco Pontone da segretario amministrativo di Alleanza nazionale vendette il celebre appartamento di Montecarlo che poi finì nelle disponibilità del fratello di Elisabetta Tulliani, la compagna di Gianfranco Fini.
«Beh, che coincidenza!», disse Pontone in quello che sarebbe uno strepitoso trailer -se da un ruolo si ricavasse un film. Il secondo spezzone andrebbe riservato ad Alessandro Patelli della Lega Nord che, beccato con duecento milioni di lire provenienti dalla maxitangente Enimont, spiegò: «Non sono soldi irregolari. Solo non li ho ancora regolarizzati». Poi aggiunse: «Sono stato un pirla». Bisogna essere capaci di tutto e non avere vergogna di niente, come si vede. «Il nostro Patelli è meglio di Greganti», disse un Bobo Maroni ancora estraneo alle furie legalitarie delle ultime settimane.
Primo Greganti se lo ricordano tutti, sebbene egli non sia mai stato il contabile ufficiale del Pci-Pds. Lo accusarono di aver intascato una mazzetta da 621 milioni di lire (nel 1989), e lui disse di aver usato il buon nome del comunismo italiano per guadagnarsi la sommetta; cioè, non aveva rubato per il partito ma al partito. Chiuso in galera, tenne il punto con una fermezza che Krancic celebrò in una vignetta sull'Indipendente in cui il galeotto cantava con resistenziale malinconia: «Quaranta dì, quaranta nott, a San Vitùr a ciapaa i bott, mi sont de quei che parlen no...».
A distanza di anni si raccontano episodi e personaggi con un po' di distacco, ma fu una stagione tremenda. Il diretto superiore di Greganti, Marcello Stefanini, morì per emorragia celebrale il 29 dicembre del 1994, coperto di indagini che non volle fossero estese ad altri. Il suo omologo del Partito socialista, Vincenzo Balzamo, non resse che a qualche mese di indagine: morì il 2 novembre del 1992 al San Raffaele di Milano, dove era stato ricoverato per un infarto che la sua espressione incredula e smarrita, quando entrava nel tribunale di Milano pedinato dai giornalisti, preannunciava da un po'.
I tesorieri sono sempre stati uomini politici di grande capacità e grande tempra, coperti dal partito che li candida in posti sicuri (per restare al caso di oggi, Lusi è senatore), delegati con ampia autonomia al lavoro sporco che qualcuno deve pur fare.
Certo, in tanto rigore marziale capita di incappare nella splendida eccezione di chi scappa con la cassa, cosa che accadde proprio al Pci quando, nel 1954, uno dei collaboratori di Pietro Secchia, Giulio Seniga, deluso dall'imborghesimento del partito fuggì con una bella somma e con alcuni preziosi documenti; in quel caso fu il Pci ad accettare le tacite regole della zona grigia, o nera, e a non sporgere denuncia. In fondo siamo in una dimensione unica, di ferrea ipocrisia, con una moralità extraterritoriale e pure qualche sprazzo di ridicolo: l'erede leghista di Patelli, Francesco Belsito, investe i soldi padani in Tanzania. C'è ancora da stupirsi?
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