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IL MARE DELLA MORTE – ‘’GRIDAVANO, CHIEDEVANO AIUTO, CERCAVANO DI ARRAMPICARSI GLI UNI SUGLI ALTRI PER USCIRE DA QUEL BUCO DOVE LI AVEVANO STIPATI COME ANIMALI DA MACELLO. GLI HANNO CHIUSO LA BOTOLA IN FACCIA CONDANNANDOLI AD UNA MORTE ATROCE”

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Francesco Viviano e Alessandra Ziniti per “La Repubblica

 

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C’è una foto che racconta l’orrore della morte nella stiva di quel barcone carico come mai nessuno ne aveva mai visti. Corpi ammassati gli uni sugli altri, alcuni mezzi nudi, altri vestiti, un groviglio di braccia e di gambe spasmodicamente tese verso quell’unica via di salvezza che altri compagni di viaggio, dall’alto, gli hanno ferocemente negato condannandoli ad una morte atroce, quasi certamente per asfissia ed esalazioni tossiche che provenivano dal motore.
 

clandestini di pantelleriaclandestini di pantelleria

Tutti uomini giovani, poco più che ragazzi, tutti “neri neri” per distinguerli dai “neri” che, in una disperata lotta per la sopravvivenza, li hanno ricacciati giù chiudendogli sul capo la botola che portava fuori, all’aria, per evitare che movimenti pericolosi potessero far rovesciare quel peschereccio che già beccheggiava paurosamente, con la gente che viaggiava quasi fuori bordo, a pelo d’acqua, tenendosi forte ai corrimani, con i genitori che stringevano a sé i tantissimi bambini a bordo, alcuni neonati di pochi mesi.
 

«Sembrava una fosse comune di Auschwitz, credo che sia un’immagine che racconta tutto», dice il dirigente della squadra mobile di Ragusa Nino Ciavola mentre, sul molo di Pozzallo, con i suoi uomini raccoglie le prime testimonianze dei superstiti e cerca di individuare gli scafisti che, come sempre, tentano di mimetizzarsi tra i profughi magari prendendo in braccio un bimbo altrui per fingersi il padre in fuga con il figlio.
 

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«Gridavano, chiedevano aiuto, imploravano di farli uscire fuori, di fagli respirare un po’ d’aria, cercavano di arrampicarsi gli uni sugli altri per uscire da quel buco dove li avevano stipati come animali da macello. Ma la barca cominciava a muoversi troppo, altri che erano sopra sul ponte hanno avuto paura e allora gli hanno richiuso la botola in faccia e si sono seduti sopra», racconta in lacrime uno dei superstiti, un giovane siriano in viaggio con la moglie e due bambine piccole.
 

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In tanti a bordo non si sono resi conto di quello che succedeva, in tanti non sapevano neanche al momento dello sbarco che c’erano almeno una trentina di morti, ma c’è anche chi ha visto e racconta una terribile guerra tra poveri, che “puzza” di razzismo persino tra gente con la pelle dello stesso colore, solo con una sfumatura più chiara, tra “poveri” e “morti di fame”.

 

Perché quelli che gli scafisti hanno piazzato in quel gavone di prua, accanto al vano motore, senza neanche una scaletta per salire su, sono quelli che non avevano i soldi per pagarsi “un posto al sole”, né un tozzo di pane, né acqua. A bordo era già scoppiata una rissa, alcuni africani avevano insidiato donne siriane, si erano presi a colpi di cintura, poi un siriano è stato gettato in acqua e fortunosamente recuperato dai suoi amici.
 

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«I morti sono tutti “neri-neri” e ad ucciderli sono stati altri neri — racconta Ebrima Singhetedi, 20 anni, del Gambia, un “nero-nero” sopravvissuto alla mattanza — Io ero fuori, vicino a quella botola che immetteva nella stiva. Quando siamo partiti dalla Libia, alcuni giorni fa, era rimasta per qualche tempo aperta. Poi, quando il mare ha cominciato ad agitarsi ed il peschereccio ondeggiava di qua e di la, quelli di sotto si sono spaventati e hanno provato ad uscire.

 

Avevano paura che la nave si rovesciasse, la barca navigava lentamente perché era stracarica, c’era gente dappertutto, sopra, sotto, ai bordi del peschereccio e nessuno di noi aveva un salvagente. E quando quelli là sotto hanno cominciato ad agitarsi per tentare di uscire dalla stiva la nave ondeggiava ancora di più. È stato allora che quelli di sopra gli hanno chiuso la botola in faccia.

 

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Loro gridavano e gli altri sopra tenevano chiuso il coperchio. Abbiamo sentito le loro urla per ore, ma non potevamo fare nulla, avevamo paura di essere buttati in mare. Poi, poco prima che si avvicinasse un altro peschereccio e le navi della Marina Italiana, i lamenti sono cessati. Ho capito che erano tutti morti. Tra loro c’era anche un mio cugino ed altri amici del mio villaggio».
 

Quanti siano con esattezza i morti si saprà solo oggi pomeriggio quando il peschereccio trainato dalla nave Grecale entrerà nel porto di Pozzallo. I medici della Marina che si sono affacciati dalla botola hanno stimato sommariamente una trentina di cadaveri, sembra tutti di uomini. I trenta “neri-neri” morti, secondo il racconto di Ebrima Singhetedi, sarebbero tutti originari del Gambia come lui, mentre quelli che li avrebbero fatti morire sarebbero senegalesi come uno dei presunti scafisti che in serata è stata individuato e fermato dagli uomini della squadra mobile di Ragusa.

 

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«A noi, che avevamo pagato di meno il viaggio, ci hanno dato i posti peggiori ed i più sfortunati sono stati proprio quelli che sono saliti per primi e sono stati infilati dentro quella stiva del peschereccio che ora dopo ora si riempiva sempre di più. Qualcuno non voleva andare ma c’era “il capitano” ed altri suoi uomini che li spingevano a forza dentro quel pozzo. Io ed altri miei connazionali siamo stati più fortunati perché ci hanno sistemati in un’altra parte del barcone però all’aria».
 

Ad assistere impotenti a quel massacro decine e decine di siriani, tutti con mogli e figli, molti ancora piccolissimi. «Si sono ammazzati tra di loro — dice uno di loro — tutto è accaduto dopo un giorno di navigazione, qualcuno ogni tanto gli tirava giù qualche bottiglia d’acqua, poi improvvisamente è scoppiato il finimondo».