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DAGOREPORT – VINCENZO DE LUCA NON FA AMMUINA: IL GOVERNATORE DELLA CAMPANIA VA AVANTI NELLA SUA…
Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera
Il Pd è una tonnara dove più i tonni si agitano, più si aggrovigliano; e Renzi non è il rais che guida la mattanza, la ruspa che rottama, lo schiacciasassi che asfalta; è solo il tonno più grosso. Resta il candidato migliore, ma pure lui ha perso il controllo del partito e il polso del Paese; figuratevi gli altri.
Il mondo va a destra e se ne sono accorti persino al Nazareno, per l’occasione traslocato in una dependance chic di via Margutta. E se lo rinfacciano l’un l’altro, leader e leaderini: occhio che arriva Trump, attenti a Marine Le Pen. Eppure, di fronte al vento contrario e alla sconfitta che si avvicina, le varie anime del partito proprio non riescono a fare fronte comune. Si odiano troppo, e odiano troppo l’usurpatore di Rignano.
A Gentiloni, che assiste silente e attonito al dibattito su quanto debba durare il suo governo, viene riconosciuto un solo merito: non essere Renzi. I numeri della direzione non devono trarre in inganno; il segretario qui è in netta maggioranza; ma non lo è nei gruppi parlamentari. Una parte del Pd l’ha sempre considerato un alieno: qualcuno l’ha combattuto a viso aperto, altri se lo sono fatti piacere, per venire fuori adesso che la sua aura di vincitore si è infranta contro il 60% di No.
Ieri è di fatto passato all’opposizione interna il ministro Orlando, erede designato dal grande elemosiniere del partito Sposetti, che non soltanto si è detto contrario alle elezioni anticipate, ma ha messo in dubbio lo schema stesso delle primarie per incoronare il segretario e il candidato premier; che in effetti è legato al maggioritario, mentre Orlando ha reso esplicito che si va verso il proporzionale.
L’assetto dove nessuno vince o perde davvero, la palude a cui Renzi si proclama inadatto. In questo momento le primarie le vincerebbe ancora lui. Lo sanno anche gli sfidanti già in campo o in panchina, che ieri sono intervenuti con voce ansimante, in un clima quasi da psicodramma (ma anche Renzi, che il riposo forzato ha reso più pingue, nel finale ha alzato la voce). Ma il partito è irrimediabilmente diviso.
D’Alema è rimasto zitto, anche se Renzi l’ha provocato in tutti i modi: accusandolo di aver cercato assessori per la Raggi, evocando la privatizzazione di Telecom e l’acquisizione della Banca 121 del suo amico salentino De Bustis da parte del Monte dei Paschi. Ma Speranza ha riconosciuto che «la scissione c’è già stata; ora si tratta di ricomporla». Il referendum è stato la svolta.
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Un pezzo del sistema si è alleato con gli antisistema pur di far fuori Renzi; ma dopo di lui non torna D’Alema e non arriva Speranza, arrivano appunto la destra tradizionale e quella populista. E il Pd visto ieri non ha la compattezza per affrontarle, forse neanche per dividerle. Davvero a Berlusconi conviene cercare un accordo dopo il voto con un partito così instabile, anziché ricostruire l’alleanza tradizionale con la Lega?
Certo, il vento contrario tira in tutta Europa. In Francia il candidato della Gauche è quarto nei sondaggi, dopo che si sono bruciate le candidature del presidente e del primo ministro. In Spagna i socialisti appoggiano di fatto i postfranchisti, eredi di coloro che due generazioni fa li mandavano in galera o alla garrota. In Inghilterra i laburisti si sono arroccati a sinistra condannandosi all’irrilevanza. In Germania l’Spd ha avuto una fiammata nei sondaggi, ma tutti pensano che le elezioni le vincerà la Merkel. In Olanda è favorito il leader xenofobo che vuole la fine dell’Europa. In America i democratici hanno subito una sconfitta storica, con Obama che si gode le vacanze e Hillary che si cura le ferite. In Italia tutto il potere va (provvisoriamente) a Orfini.
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