DAGOREPORT - È TORNATA RAISET! TRA COLOGNO MONZESE E VIALE MAZZINI C’È UN NUOVO APPEASEMENT E…
1. LONDRA SI CHIAMA FUORI
Alessandra Rizzo per "La Stampa"
«Il parlamento si è espresso. Non è realistico pensare che il governo possa tornare a chiedere ogni settimana la stessa cosa, avendo ricevuto un no come risposta». Così il ministro degli Esteri William Hague esclude un nuovo voto parlamentare sull'intervento militare in Siria. La Gran Bretagna, dice, offrirà agli Stati Uniti solo un sostegno diplomatico.
Il governo non si è ancora riavuto dalla bruciante sconfitta di giovedì scorso, quando la Camera dei Comuni ha negato a David Cameron l'autorizzazione a un'azione militare. Eppure alcuni conservatori già avanzano proposte per una nuova mozione, citando due elementi di novità : la richiesta di autorizzazione al Congresso da parte di Barack Obama allunga i tempi, dando a Cameron la possibilità teorica di fare un altro tentativo.
Ma il primo ministro non può permettersi un'altra umiliazione, che potrebbe costringerlo alle dimissioni, e il governo taglia la discussione sul nascere. Il cancelliere dello scacchiere George Osborne sostiene che i deputati erano diffidenti all'idea di un altro coinvolgimento all'estero. «Francamente non credo che maggiori prove, o un'altra settimana o un rapporto Onu li avrebbe convinti», ha detto alla «Bbc».
Cameron dovrà inoltre rispondere ad alcuni deputati furiosi dopo che un giornale scozzese, il «Sunday Mail», ha rivelato che Londra avrebbe permesso la vendita alla Siria di agenti chimici utilizzati per la composizione di gas nervino. La decisione sarebbe stata presa a rivolte iniziate, e revocata solo quando sono scattate le sanzioni Ue contro il regime.
2. LEADER SEMPRE PIÃ ISOLATI: I GIOVANI EGIZIANI E TURCHI CONTRARI ALL'INTERVENTO
Francesca Paci per "La Stampa"
Sebbene ricevano da Washington 1,3 miliardi di dollari l'anno, gli ufficiali egiziani non vedono di buon occhio l'eventuale intervento in Siria. La moglie di uno di loro che racconta al telefono i mal di pancia del marito irritatissimo: «Dice che non sopporta più l'arroganza delle amministrazioni americane, dice che hanno sempre bisogno di mostrare la propria forza e per questo terrorizzano i paesi deboli, dice che se ne guardano bene dal fare la voce grossa con la Corea del Nord o con la Cina e che dopo il massacro di Tiananmen nessuno pensò di dare una lezione a Pechino.
Dice che sono gli americani ad aver creato al Qaeda e che l'hanno mandata in Siria a combattere per avere una ragione per intervenire, dice che è colpa loro se gli arabi non riescono mai a risolvere da soli i propri guai. Dice che il problema non è Assad e che è necessario accertare la responsabilità dell'uso delle armi chimiche, ma che a doversi sbarazzare del regime sono i siriani con il voto. Dice che Obama vuol recuperare la popolarità persa in patria con un'azione per cui, al solito, pagheranno gli arabi».
Ad eccezione di quelle libiche, le piazze mediorientali fanno fronte unico contro la minaccia dei raid su Damasco. In Turchia, paese non arabo ma musulmano, migliaia di giovani sono stati bloccati ieri a Ankara e Istanbul dalla polizia antisommossa mentre tentavano di organizzare una manifestazione di protesta contro gli «Usa assassini» e contro il proprio governo che sostiene i ribelli anti Assad.
Anche Riad spinge per l'intervento e preme sulle cancellerie arabe riunite al Cairo affinché concordino nel dare una lezione a Damasco. Lo schema è noto: l'America gode di pessima fama tra i giovani arabi e tanto più i loro detestati governi vi si associano tanto meno la stimano. Una storia che Assad conosce e di cui sta approfittando anche grazie al favore forse inatteso di molti di quei rivoluzionari di Tahrir a cui i suoi oppositori si sono inizialmente ispirati.
3. ISRAELE PREOCCUPATA: "UN OBAMA TANTO INCERTO NON CI DIFENDERÃ DALL'IRAN"
Aldo Baquis per "La Stampa"
Seduto al tavolo di governo, di fronte alle telecamere, il primo ministro Benyamin Netanyahu ostenta calma olimpica. «Israele - dice - è sereno, ha fiducia di sé. Siamo pronti a ogni evenienza, i nostri cittadini ben lo sanno. E i nostri nemici hanno buoni motivi per non mettere a prova la nostra forza, la nostra potenza». Poche ore prima Israele aveva lanciato in orbita, dal Kazakhstan, un satellite di quattro tonnellate.
Quando però i giornalisti sono accompagnati fuori dall'aula, emerge un filo di preoccupazione. Giunge dai ministri nazionalisti, Naftali Bennett e Uri Ariel. Il primo è preoccupato «dai balbettii, dalle titubanze internazionali» di fronte ad Assad. Il secondo prosegue sulle medesima lunghezza d'onda. Pensa alla brusca frenata di Obama. «A Teheran - sostiene - stappano bottiglie di champagne, accelerano di sicuro i progetti nucleari». «Se qualcuno crede ora che Obama attaccherà l'Iran per impedirgli di dotarsi di armi nucleari, ha le traveggole».
Nei giorni scorsi Netanyahu aveva chiesto ai ministri di non esprimersi sulla scottante «questione Siria». Un'intervista radio di Ariel lo manda dunque su tutte le furie. Nessuno, ripete con foga, osi criticare in pubblico il presidente degli Stati Uniti. Eppure secondo un suo collaboratore, citato dalla radio militare, anche lui prova la stessa apprensione: «Se Obama esita di fronte ad Assad, esiterà ancora di più il giorno in cui fosse necessario attaccare l'Iran: una impresa militare molto più complessa».
«Al momento della verità rischiamo di restare da soli» avverte il ministro Bennett. Ma il Capodanno ebraico è alle porte, nel Paese c'e aria di festa. E Netanyahu tranquillizza: «Comunque, le nostre forze armate non sono mai state così forti come ora».
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