
DAGOREPORT - LA CERTIFICAZIONE DELL'ENNESIMO FALLIMENTO DI DONALD TRUMP SARÀ LA FOTO DI XI JINPING…
1. DAGONEWS
Lo chiamano, con apprezzabile autoironia, “il fronte dei tacchini” e sta a indicare quella massa di deputati che sono destinati a essere le vittime sacrificali della nuova legge elettorale e della riforma del Senato volute da Renzie. Difficile contarli, ma se si sommano i senatori a tutti gli onorevoli del Pd e di Forza Italia che temono di non essere ricandidati alle prossime elezioni si arriva facilmente a 500 deputati.
Il “fronte dei tacchini” vuole un presidente della Repubblica “forte e autorevole”, che sappia imporsi con Palazzo Chigi. Tradotto: un presidente che sia capace di dire no alle richieste di voto anticipato. E’ uno schieramento trasversale molto più ampio del semplice asse Fitto-D’Alema del quale già si parla da qualche tempo. Uno schieramento che guarda con grande interesse anche a quello che succede in casa grillina.
Se non espellono tutti tra loro, i deputati dell’M5S sono 140 e se si saldassero al fronte anti-renziano sarebbero in grado di eleggere a maggioranza un nuovo presidente della Repubblica. Nomi ancora non ne circolano, ma l’identikit è pronto: dev’essere un personaggio che mette in riga Renzi e che non scioglie le Camere prima del 2018. Per non fare la fine dei tacchini.
2. UN PREMIER NEI GUAI: NAPOLITANO VUOLE AMATO E L’ITALICUM RALLENTA
Laura Cesaretti per "il Giornale"
«Senza rete»: è la formula più ripetuta, nei corridoi del Palazzo, per descrivere la partita decisiva che si sta aprendo ormai ufficialmente. I tempi sono chiari: a fine dicembre Giorgio Napolitano ufficializzerà il suo addio al Colle, e intorno alla metà di gennaio alle Camere inizieranno i giochi per la successione. Senza rete, appunto, perché al momento nessuno ha in mente un candidato capace di sbaragliare i mille giochi interni e di vincere i veti incrociati della agguerrite bande di franchi tiratori che si apposteranno nelle urne.
E perché Matteo Renzi sa che con ogni probabilità arriverà allo show down senza l'arma decisiva della legge elettorale: sì, l'Italicum è incardinato al Senato (dove peraltro la maggioranza in commissione traballa, dopo il passaggio all'opposizione dei senatori centristi di Mario Mauro) e il premier è convinto di riuscire a portarlo a casa entro fine anno, ma una volta approdato a Montecitorio per la lettura definitiva la corsa si fermerà.
Non solo per la guerriglia della minoranza Pd, che ora chiede di sottoporre la legge al giudizio preventivo della Consulta, nella speranza di affossarla. Ma anche perché dalle stesse file renziane emergono diverse perplessità sul suo impianto: le elezioni in Emilia Romagna hanno dimostrato una cosa allarmante, ossia che nei territori serbatoio di voti Pd, con le preferenze, passano più facilmente i candidati della vecchia guardia, quelli legati alla Ditta e alla Cgil. Con il rischio che il premier si ritrovi nuovamente ostaggio di gruppi parlamentari ostili.
Napolitano un nome nel cuore ce l'ha, quello di Giuliano Amato. Un nome che sarebbe perfetto per lo schema caldeggiato dal presidente, ossia quello di un candidato condiviso dai «pattisti» del Nazareno: Silvio Berlusconi voterebbe volentieri Amato (era già nella sua rosa del 2013).
Ma Renzi, che pure con l'ex premier socialista ha buoni rapporti, lo ritiene poco spendibile, e certo non in sintonia con la sua linea di rinnovamento. Fosse per lui, il premier punterebbe su un candidato che sparigli, un nome fuori dai giochi della politica, un personaggio di spessore ma non riconducibile a caselle partitiche. Ha un identikit piuttosto preciso in testa, ma si guarda bene dall'evocarlo prima di aver capito se ci siano le condizioni per metterla in pista.
Di contro, nell'entourage di Palazzo Chigi si percepisce un forte timore: che la partita per il Quirinale si avveleni e si incagli al punto tale, tra veti incrociati e guerre per bande, da creare quella situazione di «emergenza democratica», con relativi contraccolpi sui mercati, che renderebbe quasi inevitabile la scesa in campo di un «salvatore della Patria».
Chi? C'è Romano Prodi, invocato dalla Bindi a nome di una parte della minoranza Pd, quella che pensa di poter coinvolgere anche i grillini sul nome del Professore. Ma, nonostante i tentativi di captatio benevolentiae che dagli ambienti prodiani partono verso Berlusconi («La pacificazione in Italia possono sancirla solo i condottieri dei due eserciti che si sono combattuti», va dicendo in giro Massimo Mucchetti, senatore Pd in quota BancaIntesa-Bazoli-Prodi), è arduo che il Cavaliere si faccia tentare.
E gli antipatizzanti di Prodi sono tanti e tali, dentro il Pd, che un replay dei 101 è assai facile da prevedere. Ma c'è soprattutto Mario Draghi: certo, è impegnato in un ruolo internazionale di primo piano e il suo mandato dura fino al 2019. Ma, secondo i ben informati, il presidente della Bce, se chiamato a salvare la patria in condizioni di emergenza, non si sottrarrebbe. Ormai è diventato chiaro a tutti che dal Quirinale, in un sistema istituzionalmente bloccato come quello italiano, si comanda molto più che da Palazzo Chigi. E sette anni sul Colle sono lunghi, e molto allettanti.
3. NEL PD PARTE LA GUERRIGLIA SUL COLLE
Carlo Bertini per “la Stampa”
C’è un Parlamento che ribolle: tra i mille emendamenti alla Camera sulla riforma costituzionale ora spunta pure una trappola per l’Italicum: che dovrebbe essere sottoposto a giudizio preventivo della Corte costituzionale, come chiede una norma transitoria proposta da Bindi, Cuperlo e D’Attorre. Tutte le strade sono buone e fa niente che l’Italicum sia in Senato.
Dove due senatrici della minoranza si fanno sostituire in commissione Lavoro per non essere costrette a votare il jobs act. Che passa però liscio nella Commissione guidata da Sacconi e arriva martedì in aula, con il timore di un non voto dei civatiani come Tocci, Mineo, Ricchiuti e Casson. Ma il governo non se ne preoccupa, la volta scorsa finì con 165 voti a favore malgrado l’uscita dall’aula di tre civatiani.
«Sento parlare di fiducia, non so cosa faremo noi, ma non si può andare avanti a strappi, asfaltando tutto», dice Mineo. Ma la trentina di bersaniani (sui cento senatori del Pd), voterà comunque senza fare scherzi, specie se verrà posta la fiducia come ombrello per garantire tutti. «La fiducia passerà anche per le dinamiche interne e non visibili tra il Pd e la sedicente opposizione berlusconiana», prevede caustico l’uomo forte di Bersani in Senato, Miguele Gotor. Tradotto, «se servirà, qualcuno uscirà dall’aula per far scendere il quorum».
E poi c’è la partita cruciale del voto per il futuro inquilino del Colle, il campo di gioco più insidioso per Renzi. E già parte la guerriglia della minoranza Dem con l’avvertimento di non scodellare un nome secco concordato con Berlusconi. Perché - e questo non lo dicono - potrebbe franare sotto i colpi dei nuovi franchi traditori.
«Sul Quirinale ci faremo sentire», minaccia Stefano Fassina intervistato da QN, alludendo a quel correntino di una trentina di deputati che non hanno votato il jobs act alla Camera: «Siamo in molti dentro il Pd a condividere l’idea che serva una figura autorevole e indipendente, non subalterna al governo e ai suoi interessi». Insomma, la minoranza non vuol essere tagliata fuori dalla partita per il Colle. Ne sono un segnale le parole di Speranza a questo giornale, sul metodo di «condivisione» che Renzi dovrà seguire per ottenere la «massima coesione».
Concetto rilanciato brutalmente da Alfredo D’Attorre. «Mi auguro che Renzi non immagini un percorso in cui si concordi con Berlusconi un candidato che non abbia caratteristiche di autonomia e autorevolezza. Noi dobbiamo eleggere un Presidente che deve essere il garante per il Paese per sette anni, non per il governo Renzi. No ad accordi su un nome al ribasso». Toni più soft da Davide Zoggia: «Napolitano ha garantito credibilità e forza al paese anche a livello internazionale, serve una figura con uno standing alto. Renzi deve lavorare per creare intese sia con il Pd che con altre forze, ma sapendo che spetta al Pd fare la prima mossa. Un Pd che deve presentarsi unito».
È chiaro che tutte le partite si tengono, Italicum e abolizione del Senato sono terreno fertile per la guerriglia anti-premier. «Se Renzi vuole andare al voto anticipato potrà farlo solo con il Consultellum alla Camera e al Senato», si compiace Gotor. Sì perché ormai a palazzo Madama tutti danno per scontato che l’Italicum passerà in Commissione a dicembre, diretto verso l’aula, solo se conterrà una clausola di salvaguardia sulla durata della legislatura, a cui il governo dovrebbe dare il suo placet: che il nuovo sistema di voto maggioritario sia valido solo quando sarà stata votata la riforma costituzionale.
E che ci dovrà essere una norma che aggiusti il Consultellum inserendo la parità di genere, per renderlo subito applicabile in caso di bisogno. Un’arma spuntata dunque in mano al premier: un sistema proporzionale senza premio di maggioranza, con il rischio di doversi acconciare a urne chiuse a larghe intese con Berlusconi...
4. DRAGHI SI CHIAMA FUORI DALLA CORSA AL QUIRINALE E CHIEDE DI NON ESSERE COINVOLTO NELLA MISCHIA - TRA I PAPABILI ENTRA CANTONE CHE AVREBBE MOLTI CONSENSI ANCHE TRA I 5 STELLE
Fabio Martini per “la Stampa”
Il più autorevole candidato alla successione di Giorgio Napolitano non sarà della partita. Nei giorni scorsi, attraverso i canali più adatti per una personalità di quella influenza, il presidente della Bce Mario Draghi ha fatto sapere di voler restare a Francoforte, chiedendo di tenerlo fuori dai pourparler che precederanno l’inizio delle votazioni per il Quirinale. Il mandato di Draghi scade il 31 ottobre 2019 e il presidente della Bce intende onorarlo sino in fondo, non soltanto perché in questo modo continuerà a restare l’uomo più influente d’Europa.
Difficile dire se l’importante forfeit di Draghi rappresenti per Matteo Renzi un problema in più o uno in meno. Certamente, da 48 ore, dopo l’intenso colloquio con Giorgio Napolitano nel corso del quale il Capo dello Stato ha confermato la sua intenzione di lasciare nelle prime settimane del 2015, il presidente del Consiglio ha preso atto che è giunta l’ora di affrontare la questione per lui più complessa.
Questione storicamente complessa, perché da quando si elegge un Presidente, quasi tutti i capi-partito non sono riusciti a portare al Quirinale i propri candidati preferiti. Ma questione complessa anche dal punto di vista della contingenza: Renzi sa di dover fronteggiare l’ostilità dei tanti “grandi elettori” che, forti del voto segreto, punteranno ad un Quirinale il più possibile indipendente da palazzo Chigi.
Renzi invece, come ha spiegato informalmente ai suoi, punta ad un Capo dello Stato che, davanti al bivio di uno scioglimento anticipato delle Camere, ascolti nel dovuto conto le sue opinioni. Quelle poche volte che ha parlato in pubblico, Renzi si è espresso con chiarezza: «Per quell’incarico serve una figura istituzionale, con un profilo che non si presta ad essere discusso sui social network».
Un metter le mani avanti davanti a candidati dal profilo sbiadito? Una cosa sola è certa: a circa due mesi dall’inizio delle votazioni per il nuovo Capo dello Stato, si è almeno definito il campo di gioco nel quale i contendenti disputeranno la partita. Renzi punta su un outsider, il più glamour possibile, meglio se sensibile e riconoscente a palazzo Chigi, mentre la minoranza del Pd ha scelto una posizione abile, almeno sulla carta, in grado di condizionare il loro “nemico”. Dice Alfredo D’Attorre: «Mi auguro che Renzi non concordi con Berlusconi un candidato privo di autonomia e autorevolezza. Il Presidente della Repubblica deve essere il garante per il Paese, non per il governo Renzi».
Certo, il premier terrà coperte le sue carte fino all’ultimo, come nella vicenda Gentiloni-Esteri, nella quale ha dimostrato di essere abilissimo nelle manovre di palazzo, nella capacità di esporre una carta, farla bruciare, tenendo coperta quella vincente. Ma partendo dall’identikit da lui stesso tracciato - un profilo istituzionale, impermeabile ai mugugni della rete - i primi tre nomi in pole position sono quelli di Pier Carlo Padoan, Carlo Cantone e Franco Bassanini. Il ministro dell’Economia, che Renzi chiama stabilmente «Pier Carlo», in nove mesi ha dimostrato di saper soffocare con sapienza i dissensi dal premier, dal quale non si è mai differenziato in modo apprezzabile.
E, per quanto non sia Carlo Azeglio Ciampi, Padoan è conosciuto negli ambienti internazionali che contano. Appeal diverso (ma anche una personalità forte) per il presidente dell’Autorità anti-corruzione Raffaele Cantone, del quale l’Espresso ha ricostruito di recente il buon rapporto personale con il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, uno dei capofila dei Cinque Stelle, possessori di un pacchetto di 141 grandi elettori. Nella casella degli autorevoli, una volta auto-escluso Draghi, resta in campo Romano Prodi.
Stavolta Grillo saprà lanciarlo all’ultimo momento utile per mettere in imbarazzo Renzi? E Berlusconi ripeterà che lui è pronto a lasciare l’Italia se al Quirinale andasse il Professore? Nel frattempo Prodi, chiamato a testimoniare al processo che vede imputato Berlusconi a Napoli per la compravendita del senatore De Gregorio, non si è costituito parte civile e ha messo a verbale che le manovre per il passaggio di parlamentari al centrodestra durante il suo governo erano «chiacchiere quotidiane».
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