IL TRE VOLTE PREMIO PULITZER THOMAS FRIEDMAN BACCHETTA I CRITICONI CHE VORREBBERO OBAMA E GLI USA PIÙ DECISI SULLA QUESTIONE UCRAINA: “DOPO LE ESPERIENZE IN MEDIO ORIENTE, LA COSA MIGLIORE E’ NON FARE NULLA”

Articolo di Thomas L. Friedman per "The New York Times" pubblicato da "la Repubblica" - Traduzione di Fabio Galimberti

Con la Russia che ringhia infuriata per la caduta del suo alleato che governava l'Ucraina e che continua a proteggere l'assassino suo alleato che governa la Siria, tutti si affannano a dire che stiamo tornando ai tempi della Guerra Fredda e che Obama e la sua amministrazione sono troppo timidi nel difendere i nostri interessi o i nostri amici. Mi pregio di dissentire. Io non penso che la Guerra Fredda sia tornata: la situazione geopolitica corrente è molto più complessa di allora. E non penso nemmeno che la cautela del presidente Obama sia del tutto fuori luogo.

La Guerra Fredda fu un evento unico, in cui si fronteggiavano due ideologie globali, due superpotenze globali, e ognuna delle due aveva dietro armi nucleari che potevano colpire in tutto il mondo e un'ampia rete di alleati. Il mondo era diviso in una scacchiera rossa e nera e l'identità di chi governava le singole caselle poteva avere ripercussioni sulla sicurezza, il benessere e il potere di ognuno dei due schieramenti. Era anche un gioco a somma zero, in cui ogni guadagno per l'Unione Sovietica e i suoi alleati era una perdita per l'Occidente e la Nato, e viceversa.

Quel gioco è finito. Abbiamo vinto noi. Quello che abbiamo oggi è al tempo stesso un gioco più vecchio e un gioco più nuovo. La più importante linea divisoria nella geopolitica del mondo odierno è «fra quei Paesi che vogliono che il loro Stato potente e quei Paesi che vogliono che il loro Stato sia prospero», sostiene Michael Mandelbaum, professore di politica estera all'università Johns Hopkins.

Nella prima categoria rientrano Paesi come la Russia, l'Iran e la Corea del Nord, guidati da leader che puntano innanzitutto a costruire autorità, rispetto e influenza attraverso uno Stato potente. E avendo i primi due il petrolio e il terzo armi atomiche da barattare con rifornimenti alimentari, i loro leader possono sfidare il sistema globale e sopravvivere, se non addirittura prosperare, giocando al vecchio e tradizionale gioco della politica della forza per controllare la loro regione.

La seconda categoria, quella dei Paesi che puntano a costruire rispetto e influenza attraverso la prosperità della loro popolazione, include tutti i Paesi del Nafta in Nordamerica, dell'Unione Europea, del Mercosur in Sudamerica e dell'Asean in Asia. Queste nazioni sono consapevoli che la tendenza più importante del mondo odierno non è quella che porta verso una nuova Guerra Fredda, ma quella che porta verso una fusione tra globalizzazione e rivoluzione informatica.

Questi Paesi puntano a realizzare scuole di qualità, infrastrutture, banda larga, sistemi di scambi commerciali, aperture per gli investimenti e gestione economica, per fare in modo che una percentuale maggiore dei loro cittadini possa godere di benessere in un mondo in cui ogni lavoro di classe media necessita di maggiori competenze e dove la capacità di innovare costantemente determina il tenore di vita. (La vera fonte di potere sostenibile).

Ora però c'è una terza categoria, sempre più nutrita, e sono quei Paesi che non sono in
grado né di esercitare la forza né di costruire prosperità. Sono il mondo del «disordine», nazioni consumate da lotte interne su questioni fondamentali come: Chi siamo? Quali sono i nostri confini? Di chi sono questi ulivi? A questa terza categoria appartengono Siria, Libia, Iraq, Sudan, Somalia, Congo e altri punti caldi del pianeta.

Mentre le nazioni che puntano sulla potenza dello Stato giocano un ruolo in alcuni di questi Paesi - per esempio la Russia e l'Iran in Siria - quelle che si preoccupano innanzitutto di costruire la prosperità cercano di non farsi coinvolgere troppo. Sono pronte a dare una mano per mitigare le tragedie umanitarie, ma sanno che «conquistare » uno di questi Paesi nel gioco geopolitico odierno significa accollarsi un onere.

In Ucraina tutte e tre queste tendenze si accavallano. La rivoluzione di piazza Maidan è avvenuta perché il Governo è stato indotto dalla Russia, che vuole mantenere l'Ucraina nella sua sfera di influenza, a non sottoscrivere un accordo commerciale con l'Unione Europea, un accordo a cui tanti ucraini interessati soprattutto ad accrescere la prosperità della popolazione guardavano con favore. Questa spaccatura ha innescato anche le spinte di secessione da parte delle regioni orientali del Paese, dove la maggioranza della gente parla russo e guarda alla Russia.

Che fare, quindi? Il mondo sta scoprendo che gli Stati Uniti ormai ci pensano dieci volte prima di intervenire all'estero. Per una serie di ragioni concomitanti: la fine della minaccia alla propria stessa esistenza rappresentata dall'Unione Sovietica, il fatto di aver investito troppe vite umane e 2.000 miliardi di dollari in Iraq e in Afghanistan ricavandone molto poco in termini di impatto duraturo, la crescente indipendenza energetica dell'America, la capacità dei nostri servizi segreti di impedire un altro 11 settembre e la presa di coscienza che risolvere i problemi dei Paesi più tormentati del mondo del disordine spesso è un'impresa che va al di là delle capacità, delle risorse e della pazienza di cui disponiamo.
Nel mondo della Guerra Fredda era semplice decidere le politiche da adottare.

C'era la politica del «contenimento », che ci diceva cosa dovevamo fare e che dovevamo farlo quasi a qualsiasi prezzo. Oggi chi contesta Obama dice che dovrebbe fare «qualcosa» sulla Siria. Lo capisco. Il caos che regna laggiù potrebbe finire per far sentire i suoi effetti nefasti anche da noi.

Se esiste una politica in grado di risolvere la situazione siriana, o anche semplicemente di fermare le uccisioni in modo stabile e duraturo, a un costo sopportabile e che non vada a discapito di tutte le cose che dobbiamo fare qui in patria per garantire il nostro futuro, contate pure sul mio sostegno.

Ma dovremmo aver imparato qualche lezione dalle nostre ultime esperienze in Medio Oriente. Innanzitutto che ne sappiamo molto poco delle complessità sociali e politiche dei Paesi di quell'area. In secondo luogo che siamo in grado - sostenendo costi considerevoli - di impedire che in quei Paesi succedano cose brutte, ma non siamo in grado, solo con le nostre forze, di fare in modo che succedano cose belle. E in terzo luogo che quando cerchiamo di fare in modo che succedano cose belle corriamo il rischio di assumerci noi la responsabilità di risolvere i loro problemi: una responsabilità che in realtà spetta a loro.

 

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