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Anna Maria Greco per “il Giornale”
Sì, Romano Prodi qualche soddisfazione se l'è presa, nel suo libro Missione incompiuta. Il Professore racconta episodi imbarazzanti, dispensa giudizi al vetriolo, fa analisi crude. Tasselli di storia degli ultimi 50 anni che, per il fondatore dell'Ulivo, spiegano il quadro politico di oggi. Peccato, che manchino chiarimenti su episodi oscuri, come la seduta spiritica durante il rapimento Moro o la vendita dell'Iri.
Le critiche verso il premier sono aperte e pesanti, nel libro intervista con Marco Damilano. «I poteri forti si sono profondamente indeboliti», spiega Prodi, e Renzi «ha certamente più probabilità di costituire il potere dominante del Paese». Però, attenzione: «Il partito della nazione è una contraddizione in termini. Nelle democrazie mature non vi può essere. È incompatibile con il bicameralismo». Nel premier Prodi non riconosce un continuatore della sua linea politica. Al Professore non piace il decisionismo renziano e sembra preoccupato di una deriva autoritaria, quando dice: «Questo è un Paese scalabile, ma la scala la devono fornire gli elettori».
Vede che «l'orizzonte politico dei governanti si sta accorciando» e i leader «non guidano ma seguono semplicemente gli umori espressi dagli elettori», guardano al «giorno dopo». E poi il metodo di Renzi: usa il trapano, mentre lui preferisce «il cacciavite» di Enrico Letta. Sarà un caso, ma Prodi esce da un lungo silenzio proprio quando l'ex premier si fa vivo in un'intervista a Handeslblatt, parlando con ottimismo dell'uscita dalla crisi. Grazie anche alle sue riforme, sostiene Letta, mentre per Renzi quel governo è caduto perché «sulle riforme era bloccato».
sergio mattarella e romano prodi
Prodi ricorda che ad agosto 2014 i libici proposero una sua mediazione, ma Renzi non accettò. A dicembre lo incontrò e il premier ventilò una sua possibile candidatura all'Onu. Lui rispose che era impossibile, per l'età e perché c'erano candidati più forti. Nel libro non manca la pagina nera del siluramento per il Quirinale, «con il voto dei 101 che, in realtà, sono stati quasi 120. Sarei stato un presidente incontrollabile, non garantivo Pd, Fi e M5S».
Il suo nemico interno Prodi lo individua in D'Alema. Da Gargonza, dove l'allora segretario Pds criticò l'Ulivo, «diede battaglia in modo esplicito». «Se ci avesse lasciato governare per 5 anni sarebbe stato proprio D'Alema il naturale e duraturo successore». Ma lui aveva «paura che il governo potesse durare a lungo e permettere la nascita del partito dell'Ulivo». È l'errore che Prodi si rimprovera, non aver rafforzato «l'aspetto organizzativo-partitico». L'eredità dell'Ulivo è passata al Pd, che la «valorizza a giorni alterni». Non quando afferma che «i sindacati non vanno ascoltati».
Nel libro racconta dei rapporti con Bossi, che nei primi anni '90 «forse su suggestione di Miglio, mi fece chiamare e mi offrì di entrare in politica con lui. Io dissi di no». Con Grillo, che gli portava i copioni dei suoi spettacoli sugli sprechi, per controllare i dati. Con Di Pietro, che lo ascoltò da testimone e già aveva mire politiche. «E i soldi alla Dc?», urlava avvicinandosi alla porta presidiata dai giornalisti. Così, per il Professore, iniziò «un populismo senza freni».
Di Berlusconi, parla poco. «Non vedo ancora l'uscita di scena. L'indebolimento è una forte assicurazione per la vita del governo. La sua scomparsa gli creerebbe troppi problemi». Preoccupato il giudizio sull'Europa che ha «perso il senso della solidarietà», negativo quello sulla Merkel, «severa maestra» che ha sostituito le agenzie di rating.
romano prodi
romano prodi e pippo baudo
romano prodi
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