QUANDO IL BOSS E’ DONNA E’ MEJO CHE PREGHI LA MADONNA: SONO PIU’ SANGUINARIE DEI LORO UOMINI

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Lirio Abbate per "l'Espresso" - Foto Di Giuseppe Carotenuto

Anche in questo caso, papa Francesco ha sorpreso tutti. Due settimane fa in piazza San Pietro, celebrando la beatificazione di don Pino Puglisi, il sacerdote assassinato da Cosa nostra nel 1993, ha usato una parola nuova: «Preghiamo perché questi mafiosi e queste mafiose si convertano».

Mafiose, appunto. Il volto emergente delle cosche: donne che non sono più gregarie o semplici "messaggeri" dei mariti o familiari, ma hanno assunto la guida dei clan gestendoli in modo autonomo. Si sono emancipate nella gerarchia criminale, con una ferocia spesso superiore agli uomini. A Napoli un pentito ha descritto le gesta della «tragicatora»: una lady camorra la cui identità è ancora nascosta fra le indagini riservate, «che mette le tragedie, che dice sempre bisogna uccidere, bisogna fare i morti».

Accade ovunque, in Sicilia, in Calabria, in Campania e in Puglia: alla regia delle cosche ci sono signore giovani o mature, ma tutte ugualmente spietate. A inizio anno nelle carceri di massima sicurezza risultavano già rinchiuse 133 donne accusate di associazione mafiosa. Gran parte di loro avrebbe ricoperto ruoli direttivi nelle cosche, rimpiazzando mariti e fratelli finiti in cella.

E il numero delle "padrine" continua a crescere, di pari passo con le retate che in alcuni casi, in passato, per un tacito accordo con gli investigatori le hanno risparmiate. Ne hanno parlato pure alcuni collaboratori di giustizia, ricostruendo gli accordi stretti anni fa con la promessa di «rispettare donne e bambini» pur di arrivare alla cattura del ricercato.

PRINCIPESSA VELENIA. Nel reggino poche settimane fa è stata arrestata Ilenia Bellocco, che aveva preso lo scettro del marito recluso: era al settimo mese di gravidanza, ma non c'era nulla di femminile nella durezza con cui dominava la 'ndrina. A soli ventitrè anni viene considerata padrona di una fetta della piana di Gioia Tauro intorno a Rosarno. Lì suo padre Umberto Bellocco, detto "Assu i mazzi" (asso di bastoni), ha fondato l'omonima cosca.

Che si è rafforzata grazie al suo matrimonio con Giuseppe Pesce, designato reggente di Rosarno dopo l'arresto di suo fratello Ciccio Pesce. Una scelta condivisa dalla ragazza, conscia che quelle nozze avrebbero portato in dote un'indiscussa autorità criminale e una ricca quota degli appalti della Salerno-Reggio Calabria. Anche Giuseppe Pesce dopo quasi tre anni di fuga si è piegato alla pressione dei carabinieri del Ros e del comando provinciale di Reggio Calabria che lo cercavano mettendo a ferro e fuoco la zona della Piana: lo scorso mese si è costituito ai militari dell'Arma, arrendendosi.

Ma durante la latitanza è stata Ilenia a mandare avanti la famiglia: trasmetteva gli ordini, incassava i soldi delle estorsioni e dei traffici. Soprannominata "Velenia" da chi per anni l'ha seguita e ascoltata durante le indagini, ha un carattere acido e spigoloso che spesso si esprime in un turpiloquio grondante bestemmie, tale da sbalordire persino gli investigatori abituati ai peggiori sicari. È un trattore che travolge tutti, si muove con consapevole determinazione, fiera del cognome che porta.

E anche del soprannome, visto che il giorno delle nozze ai suoi mille ospiti ha offerto come bomboniera un cobra in lalique con occhi in pietre preziose. Ilenia, nessun reddito denunciato al Fisco, ha un tenore di vita principesco, con uno shopping illimitato di abiti griffati, smartphone e tablet di ultima generazione, senza disdegnare massaggi e trattamenti estetici. Tutti gli uomini del clan hanno un grande rispetto per "Velenia" e tutti eseguono senza fiatare gli ordini che la giovane impartisce.

I PICCIOLI E LA PICCIRIDDA. Brancaccio è un quartiere di Palermo, che dista solamente tre chilometri dal municipio di Palazzo delle Aquile, dove Cosa nostra difende con il terrore la sovranità. E lì sopra ogni mafioso c'era lei, Nunzia Graviano, 44 anni, la "Picciridda", sorella dei tre boss Giuseppe, Filippo e Benedetto Graviano. Nel quartiere fino allo scorso anno la famiglia incassava 66 mila euro al mese affittando appartamenti, uffici e capannoni.

Altre somme arrivavano dalle attività commerciali, intestate a prestanome, comprese alcune stazioni di rifornimento: un tesoro finito sotto sequestro grazie alla "cantata" dell'ultimo pentito di rango, Fabio Tranchina. La "picciridda" è la manager della famiglia: è stata già arrestata e condannata due volte, l'ultima due mesi fa con una pena di otto anni.

Al momento del primo arresto, la "Picciridda", appena trentenne, si era da poco trasferita in Francia, con tutta la famiglia, la mamma Vincenza, e le cognate Rosalia Galdi e Francesca Buttitta: prima a Nizza e poi a Golfe Juan, secondo gli ordini di scuderia dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, in carcere dal '94.

Ordini secchi, che non ammettono discussioni. Per allontanarsi da Palermo e investire all'estero capitali illegalmente ottenuti e proteggere i due nipoti, entrambi di nome Michele, nati nel '97 con la tecnica dell'inseminazione artificiale nell'esclusiva clinica Saint-Georges di Nizza.

Ma, soprattutto, perché la "douce France" doveva diventare il paese dove spostare il patrimonio accumulato in anni di affari mafiosi. Il piano venne però disturbato dall'arresto di Nunzia, che dopo aver scontato la pena a quattro anni si è trasferita a Roma: lì, dove ha proseguito l'attività di famiglia e dove è stata nuovamente arrestata e condannata.
Dalla capitale Nunzia ha spostato la sua residenza assieme alla madre e continuava a gestire gli affari di Brancaccio tentando di non esporsi.

Quando però aveva bisogno di raccogliere denaro o trasmettere "comande" ai picciotti, questi partivano da Palermo in auto e si presentavano di notte nella casa romana della Graviano. Summit brevissimi, mai più di diciotto minuti, per poi rientrare di corsa in Sicilia. È potente Nunzia Graviano. E dalle intercettazioni della Squadra mobile di Palermo emerge lo spessore criminale e la forza intimidatoria che esercita sugli uomini del clan. Dopo l'arresto dei fratelli aveva detto agli affiliati: «Qui ormai ci sono io».

TUTTA CASA E ' NDRINA. Nelle intercettazioni si mostra feroce e sfoggia con orgoglio la sua mentalità 'ndranghetista. Angela Ferraro ha 50 anni ed è una calabrese con una marcia in più rispetto alle altre donne coinvolte nelle indagini. È la madre della collaboratrice di giustizia Giusy Pesce, e di Francesco e Marina, entrambi accusati di mafia. Suo marito è il boss Salvatore Pesce, detto "Ù babbu", ed è sorella di Giuseppe Ferraro, anche lui affiliato. Una famiglia di tutto rispetto.

Nel processo "All Inside" i giudici di Palmi ad aprile hanno condannato Angela Ferraro a 13 anni e mezzo di carcere, mentre alla figlia Marina sono stati inflitti 12 anni e dieci mesi. Alla lettura della sentenza in un processo così importante che riguardava i clan spietati che comandano nella Piana di Gioia Tauro, per la prima volta in Calabria accanto ai pm Cerreti e Pantano e al capo della procura di Reggio, Cafiero de Raho, sono stati presenti tutti i vertici delle forze dell'ordine: un modo per dimostrare agli imputati che lo Stato è unito nella lotta alla 'ndrangheta.

In questa gerarchia mafiosa Angela Ferraro ha una posizione speciale: non è una supplente. Ha lo stesso rango degli uomini: interloquisce "alla pari" con il fratello che è un boss di rilievo, si occupa di racket a Milano e gestisce il traffico di droga fra il capoluogo lombardo e la Calabria.

La donna decide le estorsioni senza chiedere le autorizzazioni ai maschi della 'ndrina ed entra nelle discussioni del clan come se avesse i gradi di generale: nessuno della famiglia si scandalizza, anzi, le portano rispetto. Dice la sua anche nei progetti di morte, in particolare contro la cugina, Rosa Ferraro. Ed è sempre lei la promotrice del tentativo di corruzione in Cassazione di un giudice attraverso un avvocato, per pilotare un processo in cui sono imputati uomini della cosca.

La forza di Angela Ferraro deriva dal fatto che è la moglie del boss Pesce, ma ancor di più perché è la sorella di Giuseppe Ferraro. Invece sua figlia, Marina Pesce, 30 anni, è "ambasciatrice" dei padrini: smistava messaggi e direttive ai vari affiliati. Conosce i segreti della famiglia e ne favorisce l'espansione. Detenuta da tre anni, il giorno della sentenza è rimasta dietro le sbarre della cella di sicurezza, seduta accanto alla mamma, piangendo a dirotto durante la lettura del dispositivo durata quasi un'ora.

Quando il giudice ha pronunciato la sua condanna si è alzata con le lacrime agli occhi ed ha iniziato a sbattere la testa contro le pareti, soffocando a denti stretti il dolore per la pena ricevuta. In tutto le donne imputate nel processo "All Inside" erano tredici: sette sono state condannate fra cui le giovanissime Maria Stanganelli, moglie di Ciccio Pesce "Testuni", e la sorella di quest'ultimo Maria Grazia Pesce, entrambe a sette anni; per altre due il reato è stato dichiarato prescritto.

Ma un verdetto più pesante potrebbe colpire Teresa Gallico, 65 anni: il pm della Direzione antimafia reggina Giovanni Musarò ha chiesto di punirla con 27 anni di cella. Teresa ha preso il posto dei fratelli detenuti al vertice della cosca Gallico e ripete spesso che lei doveva «nascere maschio»: va a riscuotere direttamente il pizzo, partecipa agli incontri con i rappresentanti di altre famiglie per decidere delitti e strategie. E di questo atteggiamento Teresa va fiera, tanto che in carcere, a colloquio con il fratello, si vanta delle sue azioni criminali e dice: «Sono come te».

LADY DI FERRO. In Campania le signore di camorra hanno un modello antico, Rosetta Cutolo, sorella e ombra di don Raffaele nell'epopea sanguinaria degli anni Ottanta. Adesso la imitano in tante. Il trionfo delle quote rosa a mano armata è stato evidenziato dal presidente della Corte d'Appello, Antonio Bonajuto, nell'inaugurazione dell'anno giudiziario: «L'assenza dei capi ha prodotto anche un'insolita successione all'interno della famiglia camorrista, non solo in favore dei giovani, ma anche e soprattutto delle donne che, senza alcuna remora e spavaldamente imponendo un'ormai raggiunta parità di genere, assumono il comando del clan».

Lo fanno «gestendo piazze di spaccio, favorendo ricercati e latitanti e, incuranti della vita breve che promettono ai figli, votati a finire i propri giorni in carcere o nella tomba, assicurando la continuità dell'impresa familiare alimentandone ogni potenzialità criminale». Nello scorso novembre i carabinieri di Torre Annunziata in un'inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Rosario Cantelmo ne hanno arrestate dodici: di fatto, la cupola dei clan Falanga e Di Gioia.

Dure negli affari - trattano con i marsigliesi l'acquisto di partite di cocaina in Spagna - e nella violenza, pronte a minacciare altre donne e persino bambini. Come quando affrontano la moglie di un pentito: «Deve dire che ritratta tutto quanto, al massimo si fa un anno, siamo più amici di prima. Nessuno gli fa male... Altrimenti il boss rompe il cu... a tutti quanti loro, cominciando da te».

Queste lady di ferro campane stanno facendo scuola. Alcune hanno impugnato le armi, presentandosi con il mitra a tracolla al posto della borsetta. Altre ragazze terribili sono alla testa di bande giovanili, che rubano e rapinano: comandano a bacchetta gli scugnizzi minorenni. La promessa di un'escalation molto prossima.

 

MARINA PESCE A SINISTRA E LA MADRE ANGELA FERRARO ENTRAMBE CONDANNATE MARIA GRAZIA MESSINA IMPUTATA ASSOLTA IL PROCURATORE CAFIERO DE RAHO E A DESTRA IL PM ALESSANDRA CERRETI MARIA STANGANELLI A DESTRA CONDANNATA A ANNI I VERTICI DELLE FORZE DELL ORDINE PRESENTI ALLA SENTENZA NEL TRIBUNALE DI PALMI