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Riccardo Arena per "La Stampa"
Ama, anzi adora se stesso e l'idea di fare «ballare la samba» allo Stato. Si sente una «potenza nazionale»: «Io sono stato un nemico pericoloso, non ne avranno mai come me. Gliene è capitato uno e gli è bastato e se lo ricorderanno sempre. Fra duemila anni sarà lo stesso. Pensavano che fossi solo un analfabeticchio...». Il compare lo blandisce: «Come voi dite mezza parola se la fanno addosso».
Perché lui, Totò Riina, di sé dice di essere «un uomo solo», ma ancora «mi sento in forma, e pure che ho cento anni, sono un uomo, so quello che devo fare». Minaccia e pianifica la morte dei magistrati di Palermo, in particolare del pm Nino Di Matteo, costretto a vivere superblindato: più dei suoi colleghi Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e dell'aggiunto Vittorio Teresi. Perché il magistrato ha sfidato Riina, al processo sulla trattativa Stato-mafia: «Mi guarda negli occhi, ma con quale coraggio! Ma me lo vuoi dire chi m... è? Un pelo dei miei...». Ed è così che attacca durissimo: «Organizziamola questa cosa! Facciamola grossa e non ne parliamo più».
Ne ha per tutti, il capo di Cosa nostra: pure per il superlatitante Matteo Messina Denaro, che si occupa degli appalti dell'eolico, per Riina solo «i pali della luce... A me dispiace dirlo, ma se li potrebbe mettere... Suo padre, âu zu Cicciu di Castelvetrano, invece era un bravo cristiano». Ed è questo, il Totò Riina che viene fuori dalle intercettazioni ambientali effettuate in carcere, a Milano Opera, dalla Dia di Palermo. Una serie di captazioni, registrate tra il 17 ottobre e il 18 novembre scorsi, dei colloqui svolti al «passeggio» o durante la «socialità », con il pugliese della Sacra Corona Unita Alberto Lorusso. Tutti e due al 41 bis, il regime di carcere duro per il quale Riina dice che «pure fra mille anni, farò guerra» allo Stato.
I due discutono anche della convocazione di Giorgio Napolitano davanti alla Corte d'assise del processo trattativa, in cui Riina è imputato: «Questo Di Matteo, disonorato, prende pure il presidente della Repubblica, ci sta marciando e facendo carriera». E Lorusso, di rimando: «Io sono pure d'accordo per non farlo andare. I politici sono tutti d'accordo. Pure il vicepresidente del Csm». E cioè Michele Vietti, che è critico per l'ammissione del Capo dello Stato come teste.
«Fanno bene - chiosa Riina - ci vuole una mazzata nelle corna. Fa bene (Vietti, ndr) a consigliarlo così, ma questo (il pm, ndr) dove vuole andare?». à ovvio che i due compari di «socialità » possono dire quel che vogliono, ma il dissenso rispetto a certe scelte processuali rimane legittimo.
Don Totò è spietato anche con altri mafiosi, come i fratelli Graviano, catturati 20 anni fa a Milano perché «avevano Berlusconi, certe volte...» e che lui critica perché si sono costituiti parte civile al processo per l'omicidio del padre. Riina l'irriducibile ripercorre anni di carriera criminale: si vanta di avere ucciso giudici come Rocco Chinnici e Giovanni Falcone e pensa di poter fare lo stesso con Di Matteo. Chinnici è il consigliere istruttore fatto saltare in aria nel 1983, e lui mima il gesto dello scoppio: «Salutava e se ne saliva nei palazzi. Poi è sceso... Vi siete divertiti, però mi sono divertito, per un paio d'anni sono stato grande. Minchia che gli ho combinato, non c'è stato nessuno capace di fare lo stesso. Se io restavo sempre fuori, io continuavo a fare un macello, al massimo livello». E al pm Di Matteo, «accanito», «che mi sta facendo uscire pazzo. Ti farei diventare il primo tonno, il tonno buono... Il vizio me lo sono tolto? Inizierei domani mattina, vorrei cominciare di nuovo...».
Invece ora ci sono in circolazione «i vigliacconi», incapaci di far succedere «il manicomio che deve succedere per forza, perché quando siamo liberi li dobbiamo ammazzare». Falcone, ad esempio, meritava di morire perché «prendeva il presidente (in Cassazione, al maxiprocesso, ndr) e lo cambiava...». Ma nella strage di Capaci ci fu un errore, ammette Riina, perché saltarono gli agenti e non direttamente il giudice.
Per questo il boss è dispiaciuto per Rosaria Costa, la vedova Schifani, che lanciò l'appello contro i mafiosi, al funerale del marito: «Mi ha fatto pena, ma è stata strumentalizzata». Nessuna pietà invece per i professionisti dell'antimafia: Lorusso evoca «Salvatore» (si chiamava Leonardo) Sciascia, che Riina elogia: «Quello era tremendo, lui sembrava un mafioso vero, ma era una persona studiosa, onesta. E i professionisti dell'antimafia, questi magistrati, non li poteva vedere, li attaccava sempre...».
2 - IL VECCHIO BOSS ABBANDONATO ALLA SUA SOLITUDINE
Francesco La Licata per "La Stampa"
Se si dovesse scegliere una espressione di Totò Riina per illustrare il lungo delirio, carico di odio e di voglia di vendetta, recitato nel carcere di Opera a favore dello spettatore e spalla suo compagno di cella, la scelta non potrebbe essere che quel ghigno a mezza bocca che «u curtu» regalò alle telecamere quando «rivelò» di essere una vittima dei comunisti e dei magistrati. Era, quello, uno sguardo malato che tradiva una patologica sete di sangue e ricordava l'assenza di umanità che caratterizzava le «performances» di un altro corleonese cattivo: Luciano Liggio.
Quanto cinismo riversava Lucianeddu in direzione dei propri nemici: in una intervista televisiva arrivò a sostenere che il giudice Terranova (anche lui aveva il suo magistrato nemico per la pelle) lo perseguitava per «rivalersi delle frustrazioni accumulate nella vita privata».
Proprio come oggi Riina, una belva i gabbia ormai con poco seguito, se la prende con Di Matteo che osa guardarlo con insistenza: «Ma come si permette?» sembra dire il boss che recita la parte del condottiero rimasto, purtroppo senza un degno erede. Matteo Messina Denaro? Ma quando mai! Quello pensa solo all'eolico e a fare soldi, non si mette «a disposizione». Don Ciccio, suo padre, sì che era un vero amico. Don Totò detesta il giovane Matteo fino a sfotterlo: «Sai dove se li deve mettere i pali eolici?».
Quanto odio nella sceneggiata di Riina. E quanto rimpianto per non poter muoversi con facilità : «Se io restavo fuori, io continuavo a fare un macello, continuavo al massimo livello». Già , perchè le sue stragi erano state «alla grande» e «allora eravamo tutti mafiosi i capimafia». à talmente accecato, il vecchio, che non si cura neppure di osservare la regola di non parlare dei reati commessi.
Ironizza sul botto che fece saltare per aria il giudice Chinnici nel 1983: «Ma che disgraziato sei, saluti e te ne sali nei palazzi. Minchia, ma poi è sceso... Minchia che gli ho combinato». Un odio che adesso riserva al pm Di Matteo: «Gli faccio fare la fine del tonno». Senza risparmiare le scorte schernite come «anatroccoli», «papere» e «uccellacci». à impressionante, tanto livore, acceso fino a non farlo più ragionare.
Tanto che, alla fine, sembra quasi confessare tutta la propria solitudine e la delusione perchè Cosa nostra non ammazza, non vuole ammazzare più i magistrati. E neppure la gente, il popolo siciliano è con lui: «Mi viene una rabbia, ma perchè questa popolazione non vuole ammazzare a nessun magistrato?». Sta messa proprio male, la vecchia «belva».
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