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Guido Ruotolo per "la Stampa"
Si aggrava sempre di più la posizione del prefetto Franco La Motta, ex numero due dell'Aisi, il servizio segreto civile, e prima ancora direttore del Fec, il Fondo edifici di culto del Viminale. Indagato a Roma per la sparizione di dieci milioni di euro del Fec affidati a due riciclatori della camorra (Eduardo Tartaglia e Rocco Zullini), e a Napoli per aver favorito il clan Polverino, rivelando notizie riservate sulle indagini della Procura antimafia di Napoli.
Peculato, riciclaggio, favoreggiamento. Sono questi i reati dai quali La Motta si dovrà difendere. Ma intanto dalle carte della Procura di Napoli viene fuori l'esistenza di una associazione a delinquere al servizio del clan camorrista che vede tra i protagonisti i due riciclatori, il produttore cinematografico Tartaglia e il broker che opera a Lugano Zullino, fermati martedì scorso.
Quella che viene ritenuta dai pm napoletani «la mente dell'associazione», Klaus Georg Beherend, «in pensione dopo 25 anni nel settore creditizio», interrogato dai pm mette a verbale una settimana fa: «Conosco Eduardo Tartaglia che è cugino di mia moglie. A un certo punto mi ha chiesto di compiere alcune operazioni su dei moduli cartacei che egli mi forniva: in particolare il Tartaglia iniziò a portarmi dei fogli contenenti la rappresentazione di posizioni finanziarie su carta intestata della "Hottinger Associés Lugano", chiedendomi di scannerizzare questi fogli e di modificare le poste interne per ottenere modifiche dei saldi».
A Behrend, gli inquirenti fanno ascoltare diverse intercettazioni nelle quali discute con Tartaglia di «operazioni finanziarie, di operazioni di valore di mercato di titoli, di storno di operazioni, di nomi in codice di conti correnti».
Al cugino acquisito del produttore cinematografico, gli investigatori hanno sequestrato una pen drive con diversi files, tra cui uno intestato ad «Aisi Roma», l'acronimo del servizio segreto civile dove il prefetto La Motta ricopriva la carica di vicedirettore vicario.
Spiega ancora Beherend: «Dovevo far risultare un rendimento dell'investimento sulla base del 3% annuo e, dunque, di circa lo 0,75% trimestrale a prescindere dall'andamento dei mercati che in quel periodo erano in discesa. Facevo questo per tranquillizzare i clienti ed evitare richieste di rientro del capitale». Tra i clienti c'erano il clan Polverino e il Viminale. Ma i 10 milioni di euro investiti dal prefetto La Motta che fine hanno fatto?
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