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BOSCHI ALL’OPERA – LA SVOLTA SOCIAL-FRIENDLY DI “MARIA ETRURIA”: DOPO LE FOTO IN AUTOBUS ECCO LA RECENSIONE DE “IL VIAGGIO A REIMS” DI ROSSINI: “UN’OPERA DA NON PERDERE. SORPRENDENTE LA REGIA DI DAMIANO MICHIELETTO, DAVVERO UN TALENTO. CON FUORTES L'OPERA DI ROMA È TORNATA AD ESSERE CAPACE DI SPERIMENTARE…” - VIDEO

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Post su Facebook di Maria Elena Boschi del 17 giugno 2017

 

Qualche sera fa ho assistito a "Il viaggio a Reims" con le straordinarie musiche di Rossini.

Con Fuortes l'Opera di Roma e' tornata ad essere capace di sperimentare senza perdere l'attenzione per la vera protagonista: la musica.

E "il viaggio a Reims" osa con la sorprendente regia di Damiano Michieletto, davvero un talento.

A chi ama lasciarsi stupire dall'Opera suggerisco di non perderselo.

 

 

2. IL VIAGGIO A REIMS, ENIGMATICO E MONUMENTALE ROSSINI

 

Carla Moreni per www.ilsole24ore.com

 

Restando in superficie, di questa regia si dice: i cantanti diventano un quadro dipinto. Ascoltandola sulla musica, invece diciamo: siamo finalmente entrati in una delle opere più enigmatiche di Rossini, Il viaggio a Reims.

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Una delle ultime, che il compositore chiama intenzionalmente “Cantata”, negandone sornione ogni possibile drammaturgia.

 

 

Damiano Michieletto non ci crede, e in questa straordinaria regia in scena all’Opera di Roma, intercettata da Amsterdam (dove ha debuttato due anni fa) come un mago squarcia il velo, cioè il sipario, che è la tela bianca di un quadro immaginario, bianco, enorme, tutto da dipingere.

 

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Quella gigantesca pagina incorniciata, dove spuntano una dopo l’altra le facce dei cantanti, buffe negli oblò strappati, diventa un’intensa metafora del genio di Rossini. Che ha scritto una girandola di capolavori, sin da quando aveva dodici anni; rivoluzionari, uno dopo l’altro, ma che quando viene celebrato a Parigi come il sommo, l’autorità senza rivali, si ritrova senza più inchiostro nella penna. Paralizzato.

 

Il viaggio a Reims dovrebbe essere un omaggio celebrativo, per l’incoronazione di Carlo X, nel 1825. Ma nell’essenza autentica è il gesto di addio: ritratto sublime, affettuoso e malinconico a quella che è stata la mirabolante avventura dell’opera italiana.

 

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Rossini la dipinge in tre ore di musica, per numeri chiusi, su lunghe cascate di quinari e settenari, forgiando su ciascuno un fotogramma ideale. Un quadro, verrebbe da dire, copiando il regista. Il viaggio non andrà da nessuna parte: la carovana internazionale di artisti, cantanti, ambasciatori, aristocratici, esemplari di una collettiva follia, resta ferma in uno spazio che per Rossini era la Casa dei bagni, all’insegna del Giglio, a Plombières.

 

E che per Michieletto è la Gallery Golden Lilium, molto newyorchese, molto Moma, molto trendy, con Picassi e Keith Haring, nella scena come sempre stupenda di Paolo Fantin e coi costumi un po’ ottocento, e un po’ novecento, di Carla Teti, per una gallerista esagitata, in caschetto, tailleur e borsetta lucida (Madama Cortese), un esperto battitore d’aste (Don Profondo) e una giovane studentessa romantica, abitino giallo e occhiali da studiosa (Corinna).

 

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Loro rappresentano un mondo intermedio, tra noi seduti in teatro e il resto della compagnia. Fatta di nobili, marchese e contesse, baroni e cavalieri. Finiranno tutti nell’ultima scena come personaggi finti di una vera tela, L’incoronazione di Carlo X di Francia di François Gérard, del 1827.

 

E lì arriva l’affondo, il virtuosismo teatrale assoluto, perfetto al millimetro sulla partitura. Perché tutti, solisti e coro, entrano via via in questo gigantesco tableaux, alto (e come si sente meglio!) e grande come il boccascena. E prendono il posto che avevano nel quadro. Salendo al rallentatore la scalinata, disponendosi a quinta e ai lati, illuminati con taglio di luce sofisticata, da tela a olio, di Alessandro Carletti. Il tutto mentre Corinna, fuori dalla cornice, deliba accompagnata dall’arpa la sua struggente ultima Aria, un corteo lunare, pura astrazione di bellezze e pace. Qui Rossini sembra fisicamente riposare, pacificato col mondo, nella quiete del canto.

 

DAMIANO MICHIELETTO - DAMIANO MICHIELETTO - “VIAGGIO A REIMS”

Questo emozionato ritratto in controluce di Rossini è l’aspetto che più ci ha commosso di uno spettacolo monumentale, a incastro come un orologio, da catalogare di diritto tra gli indimenticabili, nella galleria storica delle messinscene. Perché nel Viaggio si offrono disarmati tutti gli enigmi dell’autore.

 

Che non a caso, nonostante le distillate pagine sublimi, lo volle subito distruggere, nascondere, mascherare in altre opere. Solo grazie alla tenacia, al fiuto e alla competenza di Philip Gossett la Cantata uscì dalla polvere degli archivi, mentre era rimasta ignorata per un secolo e mezzo tra i manoscritti dell’Accademia di Santa Cecilia. Per destino fatale, questa prima esecuzione assolta, a Roma, del Viaggio a Reims è avvenuta a due giorni dalla scomparsa, a Chicago, del suo padre adottivo, che a Roma aveva abitato e insegnato alla Sapienza.

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A Philip Gossett, grande musicologo, inventore di una dimensione umanistica della ricerca, sempre sul filo doppio della competenza e degli affetti, è stata dedicata la prima recita del “Viaggio”. E le parole molto belle, lette in italiano e inglese da un altoparlante in sala, sono state coperte da un applauso intensissimo. A riprova che Philip, maestro e amico, collaboratore con scritti preziosi della Domenica del Sole24Ore, ha lasciato una traccia che non si cancella.

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Peccato non averlo avuto in sala, anche se simbolicamente era ancora tra noi: lui che stava lavorando da anni a una biografia di Rossini diversa da quelle in circolazione (chissà che non esca ora, dalle carte, protette dalla moglie Suzanne, filologa del teatro di Shakespeare) si sarebbe commosso di fronte a un Viaggio in forma di ritratto. Gli sarebbe piaciuta la festosa e scoppiettante compagnia di canto, spiritosa e di splendida classe, una squadra rutilante di professionisti col gusto di fare teatro.

 

Dove ciascuno recitava con una personalità inesistente nelle due precedenti, iconiche regie della Cantata: la prima assoluta, di Ronconi, col famoso corteo che dalla strada entrava in Scala, diretto da Abbado; e quella di Emilio Sagi che tutte le estati sfila al Rof di Pesaro, balneare, con gli sdrai allineati e i cantanti in costume e accappatoio. Michieletto le archivia entrambe, mandandole al museo.

 

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Diventando personaggi, astratti e perciò veri, cantavano alla perfezione Mariangela Sicilia, malinconica Corinna, Juan Francisco Gatell, spiritosissimo Belfiore e Nicola Ulivieri, un Don Profondo elegante, mai caricaturale. Buffo come da tradizione era invece il Barone di Trombonok di Bruno De Simone, maestro di dizione, con veste cardinalizia. Una scoperta Adrian Sâmpetrean, nella parte di Lord Sidney, Anna Goryachova, Marchesa Melibea, e Merto Sungu, Conte di Libenskof.

 

Con virtuosismo sicuro si confermava Maria Grazia Schiavo, Contessa di Folleville, e dopo un inizio in sordina si riscattava Francesca Dotto, Madama Cortese. Ottimi anche Simone Del Savio, caricaturale Don Alvaro, Vincenzo Nizzardo, Don Prudenzio, Enrico Iviglia, Don Luigino, e ancora gli ultimi dei diciassette nomi della interminabile locandina, Caterina Di Tonno, Gaia Petrone, Erika Beretti, Christian Colla e Davide Giangregorio.

 

Anche lui compreso nel “pacchetto Amsterdam”, il direttore Stefano Montanari possiede una personalità musicale e una incisività di gesto che lo rendono magnetico sul podio: qui anche al fortepiano (e con quale fantasia) è un trasgressivo apparente. Messi da parte la bacchetta infilata nella maglietta (quando suona) e gli stivaletti da cowboy (con questo caldo) sfodera la vera sostanza di un dominio assoluto delle intenzioni musicali, chiaro nelle scelte ritmiche, nei pesi, nei crescendo.

CARLO FUORTESCARLO FUORTES

 

Galvanizzati gli strumentisti, e citiamo su tutti per virtuosismo il flauto e l’arpa, a svettare era un Rossini corposo, dalla trama ricca; francese più che italiano, e ben lontano dai ronzii e dalle ripetitività. Intenzionalmente tenuto lontano da quel macchinismo facile, che abbiamo nelle orecchie, anche nel famoso catalogo di Medaglie incomparabili, screziato in un accompagnamento più morbido, rotondo. Da incorniciare, da tenere, da raccontare, senza un momento di calo di attenzione questo Viaggio.

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Quando sulle ultime battute, in sincronia perfetta, l’Orchestra e il Coro, di Roberto Gabbiani, sono tutti in posizione esatta sul quadro ricostruito, e su quest’ultimo scende un velatino con la riproduzione ingrandita della tela di Gérard originale, che sovrapposta combacia come un calco, tra pittura e persone, si hanno due riprove: di aver assistito a un grande spettacolo e di essere in un teatro ben salito di grado. Il pubblico che applaude, commenta, grida di entusiasmo lo sa: il centro dell’opera oggi abita qui.

 

“Il viaggio a Reims” di Rossini; direttore Stefano Montanari, regia di Damiano Michieletto; Roma, Teatro dell’Opera, fino al 24 giugno

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