
DAGOREPORT - DA QUESTA MATTINA CALTAGIRONE HA I SUDORI FREDDI: SE L’OPERAZIONE DI ALBERTO NAGEL…
Maurizio Ricci per “la Repubblica”
lo spot pizza napoletana contro mcdonalds
Ipercalorico. Variamente accusato di essere indigesto, poco igienico, malsano. Di affamare, sottopagandolo, chi lo serve, mentre avvelena, per eccesso di proteine, chi lo consuma. Di essere finanche l’ultima goccia che fa traboccare il vaso dell’effetto serra, attraverso il metano emesso dai bovini. L’hamburger di McDonald’s è, insomma, il simbolo dell’esecrato fast food. Eppure, meno di vent’anni fa, lo chiamavamo “la polpetta della pace” e ne celebravamo la diffusione nel mondo.
Facendo due conti, un brillante giornalista del New York Times, Thomas Friedman, aveva scoperto che due paesi che ospitassero ambedue la catena degli hamburger non si erano mai fatti la guerra. Se guerra c’era stata, era perché uno dei due era privo di McDonald’s. Dunque, gli Usa, nonostante il Kosovo, non avrebbero mai invaso la Serbia di Milosevic. La legge “del doppio arco d’oro”, come fu anche chiamata, non ha retto alla prova del tempo.
spot di taco bell contro mcdonalds 4
La Crimea ha i McDonald’s, la Russia pure, ma questo non ha impedito a Putin di farne un sol boccone. E, se è difficile non chiamare guerra gli scambi di missili e le incursioni dei carri armati nel Donbass, vale la pena di notare che i McDonald’s sono ben diffusi anche in Ucraina. Né i guerrieri vestiti di nero dell’Is paiono molto attenti a vedere chi ha McDonald’s e chi no.
MILITARI RUSSI PRENDONO IL CONTROLLO DELLA CRIMEA
La legge, del resto, era stata pronunciata strizzando l’occhio, un po’ per scherzo. Serviva, soprattutto, a segnalare che la marcia inarrestabile della globalizzazione si svolgeva in nome di stili di vita, ma anche regole e istituzioni di stampo occidentale e sembrava indirizzare il mondo verso un comune destino di libertà delle persone e dei mercati.
Alla luce dei successi di regimi autoritari come Cina e Russia, peraltro, anche questa speranza appare esagerata. Oggi, nel mondo che ha archiviato la legge McDonald’s, il problema, tuttavia, non è stabilire il colore, l’ideologia o la direzione della globalizzazione, ma la sua salute. Il mondo, infatti, forse, non si deglobalizza. Ma, rispetto a quello che noi e Friedman ci aspettavamo vent’anni fa, si sta disintegrando.
ARCIVESCOVO DI CRIMEA DAVANTI A SOLDATI RUSSI
La rappresentazione più efficace sono le difficoltà che incontra quella sorta di manifesto dell’integrazione multinazionale che è l’Europa, dove si stanno affermando le forze centrifughe all’interno dei singoli paesi e anche fra paesi, con la Grecia che ha un piede fuori dall’euro e l’Inghilterra pronta a metterli tutt’e due fuori dalla Ue. Ma, anche a livello globale, se nessuno ha mai pensato che l’Onu attuale potesse diventare una sorta di governo universale, tutti guardavano verso il Palazzo di Vetro come arena del dialogo mondiale, salvo, oggi, dimenticarsi, più o meno, della sua esistenza.
Ancora più repentina la parabola del Wto: l’Organizzazione mondiale del commercio sembrava destinata a diventare la piattaforma di un accordo planetario di libero scambio, ma, oggi, è confinata in un ruolo marginale e trascurato. Anche se di accordi commerciali si discute più che mai: ma sono sempre più accordi regionali e tutt’altro che neutri. Il trattato Usa-Asia (Tpp) e quello Usa-Europa (Ttip), su cui l’amministrazione Obama sta spendendo buona parte della sua credibilità politica sono infatti ambiziosi, ampi, multilaterali.
Ma sono pensati, soprattutto, per escludere: la Cina nel primo caso, la Russia nel secondo. Nell’ultimo anno, d’altra parte, due avvenimenti hanno inferto colpi devastanti all’architettura di un mondo pacifico e globalizzato. L’invasione della Crimea da parte di Mosca, infatti, svuota il punto chiave dell’accordo Usa-Urss che, nel 1975, a Helsinki, aveva stabilito la sicurezza e la stabilità delle frontiere. La risposta americana ed europea — la raffica delle sanzioni verso la Russia — riporta il commercio a strumento della politica.
Le geopolitica torna, così, ad essere una dimensione dell’economia. Un’importante rivista americana, The Atlantic, che legge questa disintegrazione, anzitutto, in chiave aziendale, riferisce come le sanzioni contro la Russia abbiano determinato un atteggiamento completamente nuovo nelle grandi multinazionali.
Ian Bremmer, fondatore dell’Eurasia Group, una società di consulenza geopolitica internazionale, racconta che non ha più nessuna difficoltà a spiegare ai potenziali clienti l’importanza delle sue analisi e delle sue previsioni. Per Bremmer, infatti, siamo ad un punto di svolta. «Geopoliticamente — sostiene — questo è un periodo di distruzione creatrice: la colla che tiene insieme il mondo non regge più».
salvini balla con marine le pen
La crisi è, anzitutto, politica, ma anche l’economia — il terreno principe della globalizzazione — mostra i segni di un’inversione di tendenza. La frattura della crisi finanziaria del 2008 è netta, ma i dati dicono, soprattutto, che non è solo lento il recupero dalla recessione, ma che il ritmo, il passo, le tendenze, le direzioni dell’economia mondiale appaiono mutati, rispetto all’inizio del secolo. Quest’anno e il prossimo, l’economia globale crescerà fra il 3,4 e il 3,8 per cento, un passo da lumaca, rispetto al decennio passato. In particolare, a perdere velocità è il lubrificante della globalizzazione, il commercio.
Dal 1980 in poi, gli scambi commerciali sono cresciuti sistematicamente ad un ritmo più o meno doppio, rispetto a quello dell’economia mondiale nel suo complesso. Oggi, il commercio ha vistosamente rallentato e procede di pari passo all’espansione dell’economia — lenta, peraltro — segno che il suo contributo è drasticamente diminuito e che ha smesso di essere un volano di sviluppo.
Tutti frenano. Nei paesi avanzati, fra il 2008 e il 2009, con la crisi finanziaria, si registra un crollo degli scambi di merci. Nel 2011, i miliardi di dollari di importazioni ed esportazioni tornano ad essere quelli del 2008. Ma, da allora, non sono aumentati. Anzi, sono lievemente diminuiti. Stessa situazione per i paesi emergenti, il cui import-export — secondo i dati del Fmi — è fermo ai livelli del 2011.
BERNANKE QUANTITATIVE EASING SOLDI DALL ELICOTTERO
L’altro grande braccio della globalizzazione, la finanza, soffre di una paralisi anche peggiore. Nelle economie avanzate, la bilancia dei conti correnti che, spiega l’ex presidente della Fed, Ben Bernanke, misura la quantità di capitale che un paese dà o riceve dall’estero, pesantemente in passivo prima della crisi finanziaria è oggi largamente in attivo, segno che i paesi ricchi, oggi, stanno assorbendo più capitali di quanti ne esportino e che i risparmi interni sono superiori agli investimenti.
Il loro posto, nella circolazione della finanza mondiale, non è stato affatto preso dai paesi emergenti. I paesi di nuova industrializzazione hanno, tradizionalmente, il braccino corto e risparmiano più di quanto investano, soprattutto all’estero. Ma, dal 2000 ad oggi, il loro surplus dei conti correnti è più che triplicato. Globalmente, insomma, i soldi non girano. I flussi globali di investimenti diretti (destinati cioè non a titoli, azioni, ma direttamente ad aziende e attività produttive) sono fermi, da tre anni, sotto i livelli del 2011.
I profeti della globalizzazione di vent’anni fa faticherebbero a riconoscere il mondo attuale. Nazionalismo rampante, sia pure a gradazioni diverse, dalla Mosca di Putin alla Londra di Cameron, alla Parigi della Le Pen, alla Washington del Congresso, la Tokyo di Abe, la Cina di Xi. Ritrosia a portare soldi all’estero, ma anche a comprare roba straniera. Barriere ai migranti in Europa, negli Stati Uniti, in Thailandia, in Australia. La globalizzazione doveva essere un’altra cosa.
È una pausa o una svolta? Nell’economia globale continuano ad esserci legami solidissimi: il 70 per cento del commercio mondiale coinvolge le cosiddette “catene globali di valore”, è fatto cioè di scambi di prodotti intermedi che confluiscono, dopo una lunga serie di passaggi, in un prodotto finito: il caso di scuola è l’iPhone, pensato in America, con componenti che vengono da sei paesi diversi, assemblato in Cina. Per rompere questa fittissima rete occorrerebbero eventi traumatici, oggi imprevedibili.
il bambino decapita la bambola come foley da twitter di un gruppo vicino a isis
I guerrieri neri dell’Is, contemporaneamente, pensano alla jihad smanettando sullo stesso iPhone. Semplicemente, la globalizzazione ha smesso di essere un valore in sé e, realisticamente, è diventata uno strumento che a volte serve, a volte no e su cui passa di tutto: comprese le zanzare della dengue e i guastatori delle guerre informatiche.
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